Mentre Israele continua ad attaccare il Libano con l’obiettivo di sconfiggere definitivamente Hezbollah, gli Stati Uniti sono sempre meno influenti nell’area mediorientale e non riescono più a “governare” l’alleato israeliano. Che sembra muoversi in assoluta autonomia.

Ad esempio il segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, non è stato informato in anticipo del raid che ha ucciso il leader delle milizie sciite, Hassan Nasrallah. Non solo, già da mesi i negoziati tra lo stato ebraico e Hamas sono in stallo, mentre le richieste di cessate il fuoco per il sud del Libano stanno cadendo nel vuoto.

Come mai gli Stati Uniti si trovano in questa posizione? C’entra il graduale abbandono di uno dei pilastri della politica estera americana nell’area, la cosiddetta “dottrina Carter”.

Anno 1980

Varata dall’omonimo presidente democratico che compie cent’anni il primo ottobre, si tratta di un semplice concetto enunciato durante lo Stato dell’Unione il 23 gennaio 1980: gli Stati Uniti sarebbero intervenuti nell’area del golfo Persico per difendere i loro «interessi vitali» e limitare l’influenza sovietica nella regione. Un’implementazione della politica di contenimento contro il comunismo, già attivo in Europa e in Asia dalla fine degli anni Quaranta, che però si estendeva anche ad altri nuovi nemici quale l’Iran dell’ayatollah Khomeini.

Nonostante all’epoca Carter fosse un presidente debole e impopolare, questo assunto è stato conservato anche dal suo successore, il repubblicano Ronald Reagan, che, nell’ottobre 1981, ci ha aggiunto il suo corollario a difesa dell’alleato saudita. Bastava una minaccia alla sua sicurezza da parte dell’Iraq di Saddam Hussein o dell’Iran e ci sarebbe stato l’intervento.

Questo spiega anche perché nel 1991 è stata presa la decisione di attaccare proprio l’Iraq dopo l’invasione del Kuwait. In un certo senso gli Stati Uniti avevano provato che le loro minacce erano concrete e la cosa è stata recepita anche a Teheran.

Obama e Trump

La presidenza di Barack Obama, che voleva resettare i rapporti con l’Iran, e quella di Donald Trump, che nel luglio 2019 aveva affermato che gli attacchi nei confronti delle petroliere saudite da parte della marina iraniana non rappresentavano una minaccia agli interessi vitali americani, hanno modificato la posizione degli Usa. Certo, c’è stato l’omicidio del generale Qasem Soleimani sul suolo iracheno il 3 gennaio 2020, ma non ha interrotto una politica di graduale disimpegno.

E oggi, che succede? Nella piattaforma democratica, l’Iran è citato solo come «aspirante potenza nucleare» da contenere, senza specifiche. Nel programma dei trumpiani c’è invece un riferimento alla difesa di Israele contro i suoi nemici, senza citare esplicitamente il regime degli ayatollah.

Paradossalmente, però, sono proprio i repubblicani a promettere a Israele una difesa strenua senza condizioni rispetto a un Partito democratico che, pur non venendo esplicitamente meno all’alleanza con Tel Aviv, deve tenere conto di una base sempre più critica nei confronti dello stato ebraico e delle sue azioni militari.

Quindi l’erede di Jimmy Carter, ampiamente celebrato dai democratici e al quale il presidente Joe Biden ha inviato un augurio personalizzato per il suo compleanno, sembra essere Trump, poco propenso in genere a seguire le scelte dei suoi predecessori. Il tycoon, per aiutare Benjamin Netanyahu, potrebbe reinaugurare una stagione di impegno nell’area mediorientale, anche se probabilmente non in forma pesante come all’epoca di George Bush senior o di George W.

Dopotutto il disimpegno degli ultimi anni non ha portato alla pacificazione che si pensava a portata di mano, ma a un rinnovato imperialismo di matrice iraniana che ha portato a una vasta influenza degli ayatollah, tanto da minacciare persino il traffico marittimo nel mar Rosso.

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