Ritirandosi dalla corsa, il leader si è guadagnato gratitudine diffusa. Ora può favorire la vittoria dei democratici con la sua eredità politica
La cronaca si divora la storia in questa stupefacente e capricciosa estate americana. Un colpo di scena aveva fatto di Donald Trump l’eroe sopravvissuto e ora, al culmine della suspence, ecco che Joe Biden, il suo ostinato duellante, gli ruba il palcoscenico per l’ultima recita e strappa gli applausi del pubblico prima di incamminarsi sul viale del tramonto mentre scorrono i titoli di coda sulla sua presenza da protagonista, ma non sulla sua vita pubblica. E diventa lui, il vecchio Joe, l’eroe del passo indietro, capace alfine di capire che è giunta l’ora, sacrificare l’orgoglio e lo spirito di battaglia a favore del suo paese, del suo partito.
Un’eredità politica
C’è rabbia nelle ventitré righe della lettera di rinuncia alla candidatura del presidente. Non avrebbe voluto mollare, lo hanno però convinto, lascia intendere. Ma c’è anche molta politica, una sorta di testamento, l’eredità per chi lo sostituirà, quasi un vademecum delle orme sulle quali camminare per prendere slancio e proseguire sulla strada.
La rivendicazione delle scelte “di sinistra”, l’assistenza sanitaria a prezzi accessibili per un numero record di persone, la riduzione del costo dei farmaci, le cure gratis ai veterani, la legge sul clima, quella per la sicurezza delle armi. In generale i successi in campo economico che hanno rilanciato gli States grazie ai copiosi investimenti pubblici. Tutte questioni interne, per ricordare che non si è occupato solo, come sembrerebbe, delle due guerre che hanno segnato il suo mandato, Ucraina-Russia e Israele-Palestina, due nodi irrisolti nonostante il deciso schieramento a favore di Kiev e le più dure posizioni contro il governo di Israele che si ricordino a causa della carneficina di Gaza.
Non basta. È l’atto stesso, benché obbligatorio ma con il precedente più prossimo di Johnson risalente a 56 anni fa, a suonare rivoluzionario per la sua carica dirompente e capace di scardinare giochi che sembravano già fatti. Di colpo Biden invecchia Trump, lo priva della sua narrazione sulle amnesie, il passo malcerto, i pisolini di “Sleepy Joe”, lo lascia solo con il testimone della gerontocrazia perché se fosse eletto il suo mandato finirebbe a 82 anni suonati.
Obbliga l’unto del Signore in salsa statunitense ad aggiornare, riproponendolo, il suo rosario sguaiato di contumelie ben presto riadottato dopo la breve postura moderata assunta per il proiettile che gli ha scalfito l’orecchio. E sembra, risentito anche ieri, il ritornello stantio e logoro del nonno che ha un solo tasto da suonare sul suo pianoforte. Pazzo era Biden e ora pazza è Kamala Harris, pazza ieri e oggi Nancy Pelosi, nel perenne tentativo diabolico (nel senso letterale del termine greco che significa “dividere”) di lacerare in due fazioni contrapposte e inconciliabili il Paese.
Il ritorno della contesa
Kamala Harris dunque, 18 anni più giovane del magnate repubblicano, è la scelta di Biden per la successione. L’effetto collaterale è il repentino e copioso ritorno dei donatori, l’iniezione di energia in un partito che si avvicinava stancamente e in modo quasi rassegnato al rito della convention di Chicago, mentre adesso si riapre il sipario comincia un altro atto in cui nulla sembra più scontato, compresa “l’inevitabile” vittoria di Trump.
La presidenza torna ad essere contendibile nell’estate sotto il segno dell’asinello (il simbolo dei democratici) mentre l’elefantino repubblicano ha già esaurito la sua scorta pubblicitaria riproponendo The Donald e il vice Vance. Dopo il ribaltone, nulla è già scritto nell’America, Stato giovane per antonomasia, non più costretta al ritorno dell’uguale, della sfida tra vegliardi. A patto che la rinuncia di Biden non resti la sola novità ma sia accompagnata da un percorso politico convincente. Durante il quale il presidente, ancora in carica fino a gennaio, continua ad avere un ruolo decisivo.
Intanto, per non dare l’impressione di una sorta di successione meccanica e dinastica tra vice e comandante in capo, sarebbe bene che la convention di Chicago fosse aperta a una pluralità di proposte, che Harris, sicuramente la favorita, si guadagnasse tuttavia la nomination dopo un confronto politico con la base del partito e con i delegati. Mancano cento giorni alle elezioni di novembre, il tempo è tiranno, ma miracoli dei cento giorni se ne sono visti in politica (in Francia recentemente, anche molto meno, tre settimane), ma la condizione necessaria non sufficiente è una mobilitazione generale scatenata da una situazione emergenziale.
Il ruolo di Biden ora
Biden dalla Casa Bianca, residenza privilegiata, può avvalorare la bontà del nuovo progetto democratico allo stato nascente terminando nel migliore dei modi il suo quadriennio, già impreziosito da molte luci, per convincere i cittadini a non lasciare una strada certa in favore dell’avventurismo impersonato dal tycoon repubblicano. Se è l’economia la regina del consenso (come Clinton insegnava), deve avviare una campagna per spiegare compiutamente i dati lusinghieri del suo mandato troppo spesso sottovalutati per la feroce propaganda denigratoria degli avversari.
Quanto alla politica estera dovrà essere chiaro sul ruolo dell’America in un mondo fattosi turbolento, raccontare la sua sfida alla Cina, essere chiaro sugli ostacoli che si sono frapposti in due anni e mezzo alla ricerca di una soluzione alla questione Ucraina. Magari mettendo in guardia dall’appeasement con Mosca che Trump non manca di proporre e altro non sarebbe che un via libera alla linea espansionistica di Putin verso la Vecchia Europa. Infine mettere in fila tutti gli sforzi compiuti e se possibile da raddoppiare per ridurre alla ragione l’alleato riottoso Benjamin Netanyahu responsabile della carneficina nella striscia di Gaza (Bibi arriva oggi a Washington...).
Coinvolgere, chiunque esso sia, il candidato democratico nelle sue scelte per dare il segno della continuità tra l’anziano patriarca della nazione e il prossimo possibile inquilino dello studio Ovale in modo da rassicurare l’elettorato e convincerlo a non fare salti nel buio. Dopo la rinuncia, non è finito il lavoro del vecchio Joe. Ancora uno sforzo, prima di godere della pensione nel suo Delaware.
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