Israele colpisce per la seconda volta l’Iran. È la cronaca di una rappresaglia annunciata, persino comunicata a Teheran, attraverso l’Olanda poche ore prima dei raid, quella di queste ore. Annunciata anche negli obiettivi: nel mirino degli F35 con la Stella di David, basi militari, impianti di produzione missilistica, le batterie aeree che dovevano sventare gli attacchi. Dunque, né gli impianti nucleari, né quelli petroliferi: come avevano chiesto gli Usa nel tentativo di fissare la linea rossa delle linee rosse.

Così come era prevedibile che la risposta al lancio di missili iraniani del 1° ottobre su Israele sarebbe avvenuta pochi giorni prima delle presidenziali americane. Nel momento in cui si è ulteriormente ridotta la possibilità di Washington di influire sul riottoso Benjamin Netanyahu.

Tanto più mentre l’“anatra zoppa” Joe Biden si prepara a “migrare” definitivamente nel Delaware e la potenziale erede Kamala Harris, che ha accettato il rischio di perdere il voto giovanile pro-pal e quello degli arabo-americani negli swing states, non mostra alcuna discontinuità con la linea dell’amministrazione di cui fa parte.

La stessa linea che induce la Casa Bianca a affermare che Israele ha agito per «autodifesa», a «consigliare» Teheran di non rispondere, a spostare uno squadrone aereo a stelle e strisce da una base tedesca al Medio Oriente.

Lo smaliziato Bibi, inoltre, ha scommesso sul desiderio di Harris, e del più bellicoso Donald Trump, di non ritrovarsi subito alle prese, dopo il 5 novembre, mentre il passaggio di consegne del potere è ancora in corso, con una situazione incandescente.

L’attacco israeliano delle “tre ondate”, sembra, dunque, l’ennesimo episodio della guerra in forma che, tra spinte e contro spinte, si dipana da oltre un anno nel tentativo di contenere il conflitto in termini “accettabili”. Per Biden la stella polare è stata costringere Israele a separare le sorti dell’Iran dalla politica dei suoi proxies Hamas ed Hezbollah.

Strategia che non dovrebbe mutare con Harris alla Casa Bianca mentre sarebbe assai diverso con Trump. Tanto più se The Donald puntasse rapidamente a chiudere il conflitto in Ucraina. A quel punto il secondo fronte, quello mediorientale, diventerebbe naturale terreno di compensazione, in funzione antiraniana, dell’appeasement americano verso Mosca.

Le mosse di Teheran

Che farà ora Teheran di fronte alla mossa israeliana e a un panorama politico Usa che potrebbe mutare? Rispondere con un ennesimo attacco simbolico non servirebbe molto: il gioco dell’onore salvato dura poco, poi svela i limiti che lo presuppongono.

Reagire pesantemente significherebbe, invece, esporsi a un esito militarmente infausto: la schiacciante superiorità aerea e tecnologica dell’Idf è stata evidente anche nella notte senza notte del nuovo attacco.

Se poi Trump dovesse tornare a sedersi nella Sala Ovale, il sogno di Bibi e della doppia destra estrema che lo sorregge – ridisegnare l’intero scenario strategico mediorientale andando oltre l’obiettivo minimo della doppia fascia di sicurezza a Gaza e nel sud del Libano e della distruzione dei nemici armati Hamas e Hezbollah – sarebbe a portata di mano. E senza più “fastidiose” pressioni di Washington.

Quanto a Teheran, dove il regime, al di là delle minacce di circostanza come «umilieremo i nemici», è orientato dall’imperativo per nulla sacrificale del durare, la parola decisiva spetterà ai Pasdaran. Ma i Guardiani della Rivoluzione sono usciti indeboliti dal duplice raid sul territorio nazionale e dalla clamorosa infiltrazione del Mossad.

In una guerra totale con Israele, tanto più sotto il generoso riparo dell’ombrello americano, perderebbero tutto. Per questo potrebbero accontentarsi di propagandare come irrilevante l’attacco israeliano e ridefinire sotto altre forme la capacità di deterrenza.

Oltre che per continuare a coltivare il poco confessabile obiettivo di sostituire gli elmetti ai turbanti e ispirarsi a una meno ideologica, non certo malleabile ma pur sempre negoziabile, linea improntata a un rinnovato nazionalismo grandepersiano. E, si sa, sulla politica di potenza si può trattare, su Dio no.

© Riproduzione riservata