- Dopo due anni e mezzo senza varcare i patri confini per guidare la “guerra popolare” dichiarata al Covid-19, Xi Jinping è volato in Asia centrale, regione strategica per gli interessi di Pechino e le relazioni con Mosca.
- L’allontanamento da Pechino segnala che Xi è un leader saldamente al comando, tanto da recarsi all’estero quando manca solo un mese a un congresso mai annunciato con tanto anticipo (47 giorni), dal quale è sicuro di ottenere un altro mandato a guidare il partito comunista e la Cina in un quadro internazionale sconvolto dall’uno-due pandemia-guerra in Ucraina.
- Giovedì, prima di ribadire pieno appoggio a Xi su Taiwan, Putin ha dichiarato che «apprezziamo molto la posizione equilibrata dei nostri amici cinesi sulla crisi ucraina. Comprendiamo le vostre domande e preoccupazioni e durante l’incontro di venerdì vi spiegheremo la nostra posizione».
Dopo due anni e mezzo senza varcare i patri confini per guidare la “guerra popolare” dichiarata al Covid-19, Xi Jinping è volato in Asia centrale, regione strategica per gli interessi di Pechino e le relazioni con Mosca. Sbarcato il giorno precedente nella capitale kazaka Nur-Sultan, il presidente cinese si è spostato giovedì in Uzbekistan, per il XXII summit dei capi di stato e di governo della Shanghai cooperation organization (Sco), a margine del quale ha incontrato il suo omologo russo Vladimir Putin.
L’allontanamento da Pechino segnala che Xi è un leader saldamente al comando, tanto da recarsi all’estero quando manca solo un mese a un congresso mai annunciato con tanto anticipo (47 giorni), dal quale è sicuro di ottenere un altro mandato a guidare il partito comunista e la Cina in un quadro internazionale sconvolto dall’uno-due pandemia-guerra in Ucraina.
Trentanovesimo faccia a faccia
L’ultima volta (la trentottesima in dieci anni) Xi e Putin si erano visti il 4 febbraio scorso a Pechino. In occasione dell’apertura delle Olimpiadi invernali avevano sottoscritto una dichiarazione congiunta« sull’ingresso delle relazioni internazionali in una nuova era e sullo sviluppo sostenibile». Tre settimane dopo, i carri armati russi avevano invaso l’Ucraina.
Da allora è stata fatta una miriade di congetture su se/quanto avrebbe retto la partnership “senza limiti” siglata alla vigilia dell’aggressione russa. Giovedì, prima di ribadire pieno appoggio a Xi su Taiwan, Putin ha dichiarato che «apprezziamo molto la posizione equilibrata dei nostri amici cinesi sulla crisi ucraina. Comprendiamo le vostre domande e preoccupazioni e durante l’incontro di venerdì vi spiegheremo la nostra posizione». E Xi ha replicato che «di fronte a cambiamenti storici, la Cina è disposta a collaborare con la Russia per dimostrare le responsabilità delle grandi potenze, per infondere stabilità ed energia positiva in un mondo di caos».
L’incontro di giovedì è stato preceduto dall’annuncio della nomina come nuovo ambasciatore a Pechino di Igor Morgulov – viceministro degli Esteri con forti legami con la Cina –, interpretato a Pechino come un ulteriore, chiaro segnale della “svolta asiatica” impressa da Putin alle relazioni della Russia.
E mentre Xi incontrava Putin, le marine militari dei due paesi conducevano un’esercitazione congiunta nel Pacifico occidentale il cui scopo – secondo il ministero della difesa di Mosca – è «rafforzare la cooperazione navale russo-cinese, mantenere la pace e la stabilità nella regione Asia-Pacifico, monitorare le aree costiere e proteggere le basi economiche marittime russe e cinesi».
La Cina continuerà a mantenere la sua «posizione equilibrata», sostenendo politicamente il quasi-alleato russo contro gli Stati Uniti, che dopo averle dichiarato una guerra commerciale la sfida su Taiwan, ma senza fornire a Mosca alcun supporto tecnologico-militare.
Asia centrale cinese?
In uno scenario internazionale così instabile, Pechino punta a mantenere la sicurezza in Asia centrale, tradizionale focolaio di movimenti islamisti. A Pechino hanno seguìto con apprensione la rivola antigovernativa del gennaio scorso ad Almaty, repressa nel sangue su ordine del presidente kazako Kassym-Jomrat Tokayev. La leadership di Pechino teme più che mai le “rivoluzioni colorate”, soprattutto quelle ai suoi confini che potrebbero propagarsi oltre frontiera (il Kazakistan ne ha una di 1.780 chilometri con la provincia dello Xinjiang).
E con la Russia impantanata in Ucraina e indebolita dalle sanzioni internazionali, per Pechino si è aperta la strada per un ulteriore rafforzamento delle relazioni con i cinque paesi dell’Asia centrale, a cominciare dal Kazakistan (dove nel 2013 Xi annunciò la nuova via della Seta), i cui scambi con la Cina sono in costante crescita, da 368 milioni di dollari nel 1992 - quando il paese centroasiatico era ancora saldamente nella sfera d’influenza russa - a 25,5 miliardi di dollari nel 2021.
I media cinesi elogiano il presidente Tokayev come un esempio per gli altri paesi dell’area, che dovrebbero fare da “ponte” tra Russia e Cina. Principale porta d’accesso verso l’Europa per i treni merci della nuova via della Seta, il Kazakistan ha ottenuto dalla Cina un importante sbocco sul Pacifico, il terminal di Lianyungang, nella provincia orientale del Jiangsu. Nel luglio scorso luglio, Pechino ha avuto il via libera da Tashkent e Bishkek per iniziare a costruire la ferrovia Cina-Kirghizistan-Uzbekistan, che aprirà alla Cina un altro percorso ferroviario verso l’Asia centrale oltre ai collegamenti già esistenti attraverso il Kazakistan.
La Xiplomacy
Dopo la proposta di una Iniziativa per lo sviluppo globale (Gdi) presentata un anno fa all’Assemblea generale delle Nazioni unite e quella di una Iniziativa per la sicurezza globale (Gsi) svelata al Foum asiatico di Boao nell’aprile scorso, il viaggio in Asia centrale segna il rilancio della “Xiplomacy”, ovvero della diplomazia di un presidente cinese che ha viaggiato più di tutti i suoi predecessori e che, dopo oltre due anni e mezzo di pausa, prova a recuperare il terreno perduto in un momento in cui, secondo l’agenzia Xinhua, «il mondo sta assistendo all’impatto combinato di una pandemia mai vista in un secolo, una tendenza alla de-globalizzazione e altri fattori complessi, e il sistema di governance economica globale sta affrontando sfide».
Quello della Shanghai cooperation organization (come quello dei Brics) è un terreno fertile. Nessun membro della Sco (Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan) ha votato “sì” alla risoluzione con la quale, il 3 marzo scorso, 141 stati hanno condannato l’invasione dell’Ucraina e chiesto l’immediato ritiro delle truppe russe.
La Sco, che mosse i primi passi soprattutto come piattaforma di cooperazione militare in Asia centrale contro quelli che i cinesi hanno definito i “tre mali” (estremismo, separatismo, terrorismo) si sta evolvendo in un più ampio forum multilaterale a guida cinese per costruire quello che a Pechino chiamano “nuovo ordine mondiale multipolare”, alternativo al Washington consensus e basato sui tre “no” (nessuna alleanza, nessuno scontro e nessun attacco contro paesi terzi). Non a caso tra i membri e i candidati all’adesione all’organizzazione fondata nel 1996 a Shanghai non figura alcun paese occidentale. E – sottolineano i media cinesi – tre di loro (Iran, Russia, e Bielorussia) sono colpiti dalle sanzioni occidentali. Tehran giovedì ha siglato un ulteriore memorandum ed è ora a un passo dall’ingresso a pieno titolo nella Sco.
Uno dei temi più importanti di questo XXII vertice (che si chiude oggi) sarà proprio il secondo round di allargamento ai nuovi candidati ed è ormai chiaro che più che una semplice collaborazione militare tra stati, sta prendendo forma la più grande organizzazione regionale, che mette in primo piano la cooperazione economico-politica che include il 60 per cento dell’Eurasia, un terzo della popolazione e circa il 25 per cento del Pil globale.
© Riproduzione riservata