Le aspettative suscitate dal terzo plenum del comitato centrale del Partito comunista che si è concluso giovedì 18 a Pechino sono il frutto di un fraintendimento. Le importanti “riforme” annunciate dallo stesso Pcc come esito del consesso quinquennale dedicato all’economia non sono infatti ciò che esse hanno finito per significare nelle democrazie liberali, ovvero aperture politiche e di mercato.

Le svolte in quella direzione fanno parte del passato della Repubblica popolare cinese: Deng Xiaoping che alla fine degli anni Settanta riabilita il capitale privato, la ristrutturazione delle aziende di stato voluta da Jiang Zemin negli anni Novanta, il relativo permissivismo del decennio di Hu Jintao (2002-2012).

A partire dall’anti-corruzione, le riforme della “Nuova era” proclamata da Xi Jinping servono invece soprattutto a rafforzare la struttura e l’organizzazione del partito e la sua presa sull’economia e sulla società, nel tentativo di portare a termine la “modernizzazione socialista” in una fase critica per il governo, sia in patria che nelle relazioni con gli Stati Uniti.

Il contrasto tra l’immagine di sé che Pechino proietta all’estero e le politiche del partito trapela anche dai resoconti dei media ufficiali. Negli ultimi giorni quelli in lingua inglese hanno dipinto Xi come “il sommo riformista”, mentre Qiushi – il giornale di teoria politica del comitato centrale – martedì ha pubblicato un discorso con il quale il segretario generale ha esortato gli iscritti (99.185.000 secondo gli ultimi dati) a coltivare “autostima” e “autosufficienza” e li ha avvertiti che non esiste una “soluzione pronta” o un “manuale di istruzioni straniero” da seguire.

«L’economia cinese non è crollata quando in passato a prevederlo era la “teoria del collasso cinese”, e non smetterà di crescere a causa della retorica secondo cui la Cina ha raggiunto un picco. Le prospettive di sviluppo della Cina sono brillanti e noi abbiamo fiducia», ha assicurato Xi.

In questo contesto va inquadrato il comunicato pubblicato ieri dall’agenzia Xinhua, che dà conto della linea ratificata dal plenum iniziato lunedì scorso, che informerà il prossimo piano quinquennale di sviluppo socio-economico (2026-2030).

Ci sono le attese rassicurazioni agli imprenditori privati dopo il terribile uno-due chiusure anti-Covid-regolamentazioni ordinate da Xi nel 2021-2022: «È necessario sfruttare meglio il ruolo del mercato, promuovendo un ambiente di mercato più giusto e dinamico e rendendo l’allocazione delle risorse quanto più efficiente e produttiva possibile». Viene affermata la centralità dell’innovazione per favorire la quale saranno «migliorati istituzioni e i relativi meccanismi». Ma non manca l’attenzione a «ridurre il gap tra aree urbane e rurali (le disuguaglianze sociali, ndr), per promuovere la prosperità comune e lo sviluppo».

In questo modo, auspica il comunicato del comitato centrale, «entro il 2035, avremo completato la costruzione di un’economia socialista di mercato di alto livello sotto tutti gli aspetti, migliorato ulteriormente il sistema del socialismo con caratteristiche cinesi, modernizzato in generale il nostro sistema e la capacità di governo e sostanzialmente realizzato la modernizzazione socialista». Dove l’enfasi è, evidentemente, sull’attributo “socialista”.

Delusione delle corporation

Come ha rilevato la ricercatrice di Chatham House Yu Jie, «per dirla in termini pratici, gli osservatori non devono illudersi su piani di stimolo, ma aspettarsi ulteriori interventi del governo per incanalare le risorse economiche nei settori strategici e dell’innovazione e per garantire un welfare sociale minimo ai poveri. È improbabile che arrivino le politiche attese e favorite con impazienza dalle imprese private e dagli investitori globali».

Dunque per i prossimi anni – indipendentemente da chi il 20 gennaio prossimo s’insedierà alla Casa bianca – la Cina scommette su quello che Xi ha definito “sviluppo di qualità”, che dovrà essere trainato dalle cosiddette “nuove forze produttive di qualità”: innovazione, nuove industrie, nuovi prodotti. Tuttavia, bisognerà nello stesso tempo fare i conti con una domanda interna insufficiente, con un welfare inadeguato e col sistema di residenza maoista che rallentano l’urbanizzazione e i consumi, problemi irrisolti che il paese si porta dietro da decenni. La frammentatissima assistenza sanitaria pubblica andrà migliorata non privatizzata, e così il sistema dell’istruzione.

Le politiche della seconda economia del pianeta avranno un impatto importante sul capitalismo globale. Tanto che, la settimana prossima arriverà a Pechino una delegazione di rappresentanti di alcune delle maggiori corporation Usa, che vorranno essere tranquillizzate in prima persona sulle prospettive dei rispettivi investimenti: l’amministratore delegato di FedEx, Raj Subramaniam, e top manager di Goldman Sachs, Honeywell, UnitedHealth, Nike, Qualcomm e Starbucks, tra le altre.

La riunione dell’ufficio politico che (il 27 giugno) aveva annunciato le date del plenum ha sottolineato che le opinioni raccolte, dentro e fuori il partito, sulla risoluzione del comitato centrale pubblicata ieri sull’Ulteriore approfondimento delle riforme e l’avanzamento della modernizzazione cinese è una prova di democrazia nel Pcc.

La realtà è che nella storia della Rpc un III plenum così breve (quattro giorni scarsi) non si era mai visto. Mao (come Deng) affrontò epiche battaglie politiche all’interno del CC, mentre oggi l’organismo al quale, secondo le “quattro obbedienze” (sìgè fúcóng) del grande timoniere, «devono essere sottoposti tutti gli iscritti» è stato addomesticato. Xi, il “cuore della leadership” (lǐngdǎo héxīn), detta la linea, i 376 componenti la leadership allargata non discutono più, la approvano e basta. Il controllo del comitato centrale è stato raggiunto grazie all’ingresso – in occasione del XX congresso – tra i sette membri del comitato permanente dell’ufficio politico, il gabinetto ristretto (presieduto da Xi) che governa la Cina, di componenti (tutti fedelissimi di Xi) con un ampio network nel CC. Del quale oggi 226 membri su 376 (mai così tanti in passato) risultano direttamente collegati ai “magnifici sette”, assieme ai quali hanno svolto parte dei rispettivi cursus honorum.

Il menù fisso per questo terzo plenum del XX Cc prevedeva: meccanismi di controllo del Pcc (l’ossessione di Xi), autosufficienza tecnologica, de-risking finanziario, welfare, politica industriale. Altro che riforme di mercato: nella “Nuova era” di rallentamento economico e contrapposizione con Washington il partito-stato si è ripreso (quasi) tutto lo spazio che aveva ceduto prima dell’arrivo di Xi nel novembre 2012.

La strategia di medio periodo

Negli ultimi dodici anni, nella “sua” Cina per i neolaureati è diventato più difficile trovare lavori qualificati e ben retribuiti, il capitale privato si è fatto guardingo e reticente a investire, il settore immobiliare è depresso. Eppure gran parte del paese guarda al bicchiere o, meglio, alla ciotola mezza piena, dal momento che ieri la Fao ha reso noto che la Cina (con 124,61 grammi) nel 2021 ha superato gli Stati Uniti nella quantità di proteine pro capite assunte quotidianamente dalla popolazione.

L’economia infatti continua a crescere (4,7 per cento nel secondo trimestre, 5 per cento nel primo semestre, in linea con le previsioni del governo), mentre la propaganda ha gioco piuttosto facile a rappresentare la Cina come un’oasi di stabilità in mezzo a un mondo in preda al caos (luàn), tra guerre e attentati a leader politici.

Insomma, se è certamente importante guardare ai dati che segnalano le evidenti difficoltà dell’economia cinese (rallentamento della crescita, domanda interna fiacca, calo degli investimenti esteri diretti, crisi del mercato immobiliare), è altrettanto utile osservare la strategia di sviluppo di medio-lungo periodo messa in campo dal Partito comunista cinese. E, nei prossimi mesi, vedere come sarà tradotta in provvedimenti la linea uscita da questo terzo plenum.

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