Il comunicato con il quale oggi si conclude il vertice annuale dell’Alleanza atlantica registrerà un’escalation retorica contro la Cina, accusata di sostenere l’aggressione russa all’Ucraina. Ad anticiparla sono state le dichiarazioni di Jens Stoltenberg, che nei giorni scorsi ha incolpato Pechino di «alimentare il più grande conflitto armato in Europa dalla Seconda guerra mondiale».

Ma cosa può fare concretamente la Nato per assolvere il suo nuovo “core business”, che il professor Luis Simón – in un articolo pubblicato su War on The Rocks – ha individuato nel «fermare il revisionismo delle grandi potenze», ovvero il tentativo di Xi Jinping e Vladimir Putin di ridisegnare l’ordine internazionale? La guerra in Ucraina ha apparentemente rafforzato il tradizionale ruolo dell’Alleanza atlantica a difesa dell’Europa dalla Russia. Tuttavia a Pechino ritengono che proprio lo shock ucraino (e un’eventuale seconda presidenza Trump), nel medio periodo, spingerà l’Unione europea a muoversi nella direzione di una maggiore “autonomia strategica” da Washington e dalla Nato.

Il viaggio a Mosca e Pechino di Viktor Orbán, premier di quell’Ungheria che fu (assieme alla Polonia e alla Repubblica Ceca, nel 1999) tra i primi stati dell’ex Patto di Varsavia a essere ammessi nella Nato, l’insofferenza filo-Putin dei sovranismi continentali e la crisi dei partiti “mainstream” rivelano che, da parte europea, non c’è consenso sui compiti che potrebbe svolgere la Nato, né in Ucraina né, tantomeno, nell’Indo-Pacifico.

D’altro canto gli Stati Uniti sono impegnati a sostenere militarmente l’Ucraina e Israele, e ciò li distrae dalla regione diventata il cuore della competizione con la Cina di Xi, che la strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden ha definito «la sfida geopolitica più significativa per l’America».

Il banchetto dei guerrafondai. S’intitola così la vignetta del brasiliano Carlos Latuff pubblicata dal Global Times: raffigura un gruppo di avvoltoi famelici che, forchetta in pugno, circondano un mappamondo sotto al quale campeggia la didascalia “Nato summit”. Contraltare al vertice dei “guerrafondai”, lo scorso fine settimana a Pechino si è svolto il XII World Peace Forum, durante il quale la Cina di Xi Jinping ha rilanciato la linea dei paesi Brics. Siyabonga Cyprian Cwele ha sostenuto che «la causa del conflitto è l’espansione della Nato» e che un processo di pace dovrà «rispettare il diritto internazionale, ma anche le reciproche preoccupazioni di sicurezza», così come messo nero su bianco nella “Posizione della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina” pubblicata il 24 febbraio 2023. L’ambasciatore sudafricano a Pechino ha aggiunto che «l’intero continente africano ha una posizione comune, molto simile a quella cinese».

La propaganda anti Nato di Pechino si sta rivelando utile alla promozione di quel mondo “multipolare” immaginato da Xi e Putin (il “revisionismo delle grandi potenze” di cui parla Simón), caratterizzato dalla sovranità senza limiti tanto cara al Partito comunista cinese. Infatti il 4 febbraio 2022 (20 giorni prima dell’invasione dell’Ucraina) Xi e Putin hanno sottoscritto la “Dichiarazione congiunta della Federazione russa e della Repubblica popolare cinese sull’avvento di una nuova era delle relazioni internazionali e sullo sviluppo globale sostenibile”, nella quale si legge che «le parti si oppongono a un ulteriore allargamento della Nato e le chiedono di abbandonare i suoi approcci ideologizzati da guerra fredda, di rispettare la sovranità, la sicurezza e gli interessi degli altri paesi, la diversità delle loro civiltà, culture e contesti storici e ad esercitare un atteggiamento giusto e obiettivo nei confronti dello sviluppo pacifico di altri Stati». E nella regione Asia-Pacifico «si oppongono alla formazione di blocchi chiusi e di campi opposti e rimangono altamente vigili sull’impatto negativo della strategia indo-pacifica degli Stati Uniti sulla pace e sulla stabilità nella regione».

Il vantaggio dell’occidente

Il 18 giugno scorso a Washington Stoltenberg ha sostenuto che «il crescente allineamento tra la Russia e i suoi amici autoritari in Asia rende ancora più importante la stretta collaborazione con i nostri amici nell’Indo-Pacifico», ovvero il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda, gli “Indo-Pacific Four” (Ip4) che hanno partecipato al summit che si chiude oggi.

Luis Simón – direttore del Centre for Security Diplomacy and Strategy presso la Vrije Universiteit di Bruxelles – ritiene che la Nato debba schierarsi con piuttosto che nello Indo-Pacifico. Ciò vuol dire che i 32 stati membri – condividendo l’obiettivo di «fermare il revisionismo delle grandi potenze» – dovrebbero, insieme agli Ip4, «pensare a come sviluppare un ecosistema di deterrenza trasversale di concetti, dottrine, capacità, tecnologie e standard condivisi che dia loro la scala necessaria per superare i loro concorrenti, soprattutto in un contesto di logoramento», cioè di quelle guerre in cui si mira a esaurire progressivamente le forze nemiche, senza scontri risolutivi.

Rispetto a quello che si va delineando intorno a Cina-Russia, il blocco Usa-Nato-Ip4 ha secondo Simón il vantaggio di essere fortemente “asimmetrico”: gli Stati Uniti, con la loro superpotenza militare schierata da decenni nel Pacifico, ne sono chiaramente la guida e potranno indirizzare gli alleati alla ricerca di soluzioni strategiche e operative, mantenendo la loro dipendenza dal complesso militare-industriale Usa.

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