La notizia dei bombardamenti israeliani su quattro quartieri al sud di Beirut è arrivata sui telefoni di Nader e Fayrouz, che abitavano nelle vicinanze e in una notte hanno perso tutto. Ora, la coppia siriana è quasi a 600 km di distanza dal Libano ed è in cammino per dirigersi verso l’Europa insieme ad una carovana di gente.

Sono siriani, palestinesi e libanesi e sono in viaggio ormai da giorni, perché procedono a piedi per arrivare il più velocemente possibile sulla costa turca. Da lì le strade si dividono. «Sappiamo che alcuni hanno scelto di dirigersi verso la Grecia – racconta Nader – per arrivare in Europa e magari fermarsi ad Atene. Cercheranno di rimanere lì per poi, magari, rientrare in Libano. Il resto di noi aspetta di partire verso la rotta balcanica».

Secondo analisti e attivisti, l’impatto di questa migrazione dal Libano avrà ripercussioni da un lato sull’area dell’Egeo orientale, sulle isole di Chios, Samos e Rodi, dall’altro sulla rotta balcanica. E infatti, al confine tra Turchia e Bulgaria, in certi tratti li si vede camminare in fila per due, trascinando valigie e sacchi, con il volto stravolto da terrore e stanchezza, e pare quasi che nessuno possa fermali. In realtà, né la polizia siriana né quella turca stanno mettendo in atto misure particolari di contenimento sui rispettivi territori nazionali.

Il business dei trafficanti

Il business dei trafficanti sta andando a mille in queste ore, con pacchetti e offerte che comprendo una parte o tutto il viaggio fin su, alle porte d’Europa.

«Non sappiamo ancora quantificare la presenza, ma ci aspettiamo un aumento del flusso lungo tutta la rotta», ci spiega Laura Lungarotti, coordinatrice dell’Oim per i Balcani occidentali e capo missione in Bosnia-Erzegovina. «Sappiamo che le guerre hanno sempre delle conseguenze. Noi come Oim siamo pronti, insieme al governo bosniaco, ad affrontare anche questa situazione».

Mentre la rotta del Mediterraneo centrale negli ultimi mesi ha visto una diminuzione del flusso, la rotta balcanica ha continuato ad essere una via principale per i migranti. «Abbiamo attraversato la jungle in Bulgaria e poi siamo arrivati in Serbia», raccontano due adolescenti siriani. Hanno quindici e sedici anni, ma sulle loro teste compaiono dei prematuri capelli bianchi, forse per la paura, forse per la fatica. Poco dopo il confine serbo, sono stati avvicinati da un tassista che gli ha proposto un passaggio. «Non avevamo molti soldi ma ha voluto solo 50 euro a persona e ci ha portati sulla riva della Drina, lì ci ha mollati ed è tornato indietro».

La Drina infernale

Tra tutti i “game” della rotta, come i migranti chiamano l’attraversamento di un confine, quello è tra i più mortali. La Drina separa la Serbia dalla Bosnia e i migranti provano a nuotarci dentro per attraversare la frontiera, ma non è così facile. «Il fiume è profondo e la corrente è molto più forte di quel che si pensa, è facile morire».

Lo racconta l’attivista Nihad Suljic proprio mentre camminiamo sulla riva del fiume. Tra l’acqua e la fanghiglia ci sono i segni di un recente passaggio, anche una bambolina. «C’è chi attraversa a nuoto e chi accetta di pagare qualcuno del posto che noleggia la sua barchetta, ma anche così è rischioso», spiega Nihad mentre è piegato sull’acqua per una fugace preghiera a chi ha perso la vita.

L’ultimo naufragio è avvenuto lo scorso agosto. I migranti erano in prossimità della cittadina serba di Ljubovija quando la chiatta è affondata e ha provocato la morte di nove persone. Chi riesce a guadare il fiume arriva a Tuzla, la prima grande città bosniaca. «Accogliamo persone distrutte, con ferite evidenti o traumatizzate dal viaggio», spiega Elnur Jahic, responsabile della safe house di Tuzla.

La struttura fa parte del progetto BRAT – Balkan Route: accoglienza in transito, finanziato da Ipsia con Caritas Italiana, Croce Rossa e partner locali. «Tra gli ospiti ci sono anche molte donne da sole e nuclei familiari con bambini», dice Elnur. «Spesso hanno bisogno di fermarsi qualche giorno in più per ritrovare la serenità, soprattutto i più piccoli».

L’arrivo dei migranti è costante e lo sanno bene tutti quelli che vogliono entrare nel business della rotta balcanica. Taxi, bus, auto private sono diventate, negli ultimi mesi, l’alternativa alle lunghe e rischiose marce lungo foreste e stradine. Chiaramente a pagamento. «Cerchiamo di spiegare ai migranti che possono non accettare le proposte costose dei trafficanti», dice il giornalista Senad Piric.

Ogni sera Senad passa dalla stazione ferroviaria, controlla la presenza di persone in difficoltà e gli smugglers lo sanno, gli stanno alla larga. Ma basta spostarsi un po’ verso la periferia per pretendere al volo chi sbuca dall’ombra e sale al volo in macchina.

Per molti, la tappa successiva del cammino è Sarajevo. «Sappiamo che c’è un gran flusso di gente all’imbocco della rotta balcanica». Lamia, una delle responsabili della safe house della capitale bosniaca, ci accoglie nel salotto dove tre bimbi disegnano con i pastelli.

«Noi siamo già pronti ad accogliere i rifugiati dal Libano e ci aspettiamo che i primi arriveranno già tra una decina di giorni». Secondo gli attivisti che lavorano lungo tutta la rotta, al massimo entro un mese e mezzo i primi rifugiati potrebbero arrivare a Trieste o a Gorizia portando, così, anche in Italia gli effetti della guerra in Medio Oriente.

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