Il dittatore si reinsedia, senza aver “dimostrato” di aver vinto davvero le elezioni. I più allarmati appaiono i grandi paesi progressisti: Brasile, Colombia e Messico. Intanto la leader dell’opposizione, uscita dalla clandestinità per partecipare a uno dei tanti cortei, è stata fermata
Nonostante non abbia mai dimostrato di aver vinto le elezioni di luglio, Nicolás Maduro si reinsedia in Venezuela conclamando così il passaggio a un regime di fatto. I più preoccupati appaiono i grandi paesi progressisti della regione: Brasile, Colombia e Messico.
Con la tensione in aumento, il Venezuela ha trascorso l’ultimo giorno prima del giuramento di Nicolás Maduro previsto per venerdì 10 gennaio. Decine di manifestazioni, si sono svolte giovedì in tutti gli stati del paese, e alcune capitali estere, convocate sui social dalla leader dell’opposizione María Corina Machado, che è poi uscita dalla clandestinità per partecipare a un corteo a Chacao, uno dei comuni di Caracas.
A pochi metri da un picchetto di polizia pesantemente armata e blindata, e vicino a civili chavisti armati, Machado ha preso la parola per cantare l'inno nazionale venezuelano da un palco improvvisato su un veicolo, per rivolgersi a circa 700 persone che l'attendevano con ansia dal mattino.
La leader dell’opposizione ha pagato cara la decisione: nella serata di giovedì, infatti, Machado è stata arrestata dopo essere stata intercettata da agenti armati che hanno sparato contro la sua carovana. «María Corina è stata violentemente intercettata mentre usciva dal comizio di Chacao. Speriamo di poter confermare la sua situazione tra pochi minuti. Agenti del regime hanno sparato alle moto che la trasportavano», ha dichiarato in un comunicato il partito Vente Venezuela.
Il governo intanto dosa l’allarme denunciando possibili golpe o l’invasione di mercenari, lasciandosi le mani libere per giustificare strette repressive, o attaccare i governi più critici. In poche ore Maduro ha rotto le relazioni col Paraguay, dato del neonazi a Javier Milei e accusato il presidente di Panama Mulino di non avere «los cojones» per difendere il canale reclamato da Trump.
Improbabile resta il fatto politico più rilevante, lo sbarco in Venezuela dell’anziano diplomatico Edmundo González, considerato “presidente eletto” tra gli altri da Giorgia Meloni e Joe Biden. González, un gentleman troppo esile politicamente per fare ombra tanto a Maduro come Machado, si trova da mercoledì a Santo Domingo.
Lo accompagnerebbero nell’impresa una decina di ex-presidenti di destra o centro-destra, tra i quali spiccano il boliviano Tuto Quiroga e i messicani Vicente Fox e Felipe Calderón. Per non sbagliare il ministro degli interni di Nicolás Maduro, Diosdado Cabello, ha già emesso mandati di cattura per tutta la comitiva.
Il giro per le Americhe dopo mesi a Madrid è stato più amaro di quanto sperasse. Il momento topico è stato alla Casa Bianca con Joe Biden, che ha usato la formula “presidente eletto”, ed è stato ricevuto anche dal consigliere per la sicurezza di Trump, Mike Waltz. Parole di circostanza, ma l’unico entusiasta d’incontrare González si è dimostrato Javier Milei alla Casa Rosada. Aveva lasciato il vecchio continente col Premio Sacharov sotto braccio, ma senza il riconoscimento formale che ha lungamente chiesto.
Quel “presidente eletto”, usato anche da Roberta Metsola, unito al blando inasprimento delle sanzioni contro quindici funzionari chavisti, e l’avere per amici i popolari spagnoli, che lo usano contro Pedro Sánchez, sa di poco, e neanche l’arrivo al Dipartimento di Stato Usa del duro Marco Rubio lascia presagire grandi novità. Semmai Donald Trump, come attestano anche i recenti accordi tra Caracas e Chevron (e la spagnola Repsol) potrebbe trovare più conveniente un appeasement che renda disponibile il petrolio dell’Orinoco, e freni la diaspora venezuelana.
I dilemmi dell’America Latina
D’altra parte Nicolás Maduro non è mai stato solo. Se Chevron e Repsol non si sono fatte pregiudiziali democratiche per firmare negli ultimi mesi lucrosi accordi petroliferi, uno dei molti calcoli sbagliati di questi anni di Europa e Stati Uniti è stato credere che il chavismo fosse destinato all’estinzione.
Oggi, in franco recupero economico dopo anni catastrofici, e con una geopolitica in evoluzione, Cina e Russia sostengono Maduro come un paese Nato come la Turchia. Nella regione, oltre che sulla sempre influente diplomazia cubana può contare su due legittime democrazie come quella di Luís Arce in Bolivia e di Xiomara Castro in Honduras, oltre che sulla mummia di Daniel Ortega a Managua, che, anche se è soprattutto un peso, fa numero.
L’insediamento di Maduro resta però una crisi maggiore nella diplomazia latinoamericana e grava innanzitutto sui due grandi vicini a guida progressista, Brasile e Colombia e, in misura minore, sul Messico di Claudia Scheinbaum, intenta a mostrare schiena dritta di fronte agli ex abrupto di Donald Trump sui riassetti geopolitici dell’intera area centro-nord americana e caraibica. Alla fine, la quadra è stata trovata nella diplomazia. Non andranno capi di stato né ministri, ma saranno presenti tutti e tre gli ambasciatori, decisione salomonica che ha creato malumori soprattutto a Bogotá.
Fin dal 28 luglio, quando Maduro ha fatto sparire i risultati elettorali senza neanche truccarli, per Bogotá e Brasilia, che erano state parte attiva degli accordi che avevano portato alle elezioni, sono iniziati gli equilibrismi. Farsi prendere in giro, e spesso insultare, da Maduro non era possibile. Al contempo continuare a chiedere i registri elettorali, che Caracas non aveva nessuna intenzione di mostrare, aveva il fiato corto. Proposte come un governo di coalizione e nuove elezioni sono state rifiutate tanto da Maduro come dall’opposizione.
Governi con tradizioni diplomatiche di primo piano, un attore globale come il Brasile in particolare, non potevano però né accettare lo stato di fatto imposto da Maduro, né al contempo far incendiare l’intera regione, magari ritrovandosi la Milei venezuelana, María Corina Machado, a Miraflores. Il gesto più clamoroso lo ha compiuto Lula. Complici i suoi problemi di salute, ha rinunciato al vertice Brics di Kazan per non incontrare Maduro, arrivando a mettere il veto sull’ingresso di Caracas nell’organizzazione che sempre più incarna gli interessi degli attori non occidentali in crescita.
Allo stato Itamaraty, la Farnesina brasiliana, opta per congelare le relazioni, non riconoscendo né Maduro né González. Se per Lula è complicato distanziarsi da un paese per anni vicinissimo, in particolare negli anni di Chávez e dell’argentino Néstor Kirchner, ancor più grave lo è per Gustavo Petro.
Il primo presidente progressista della Colombia, e che aspira ad una non impossibile rielezione, sa da tempo di dover prendere le distanze da Maduro senza rompere relazioni su una frontiera dove vivono e circolano quotidianamente tredici milioni di persone con vincoli economici, culturali, familiari secolari.
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