“The radical”. Lo scorso marzo, il «Time» ha dedicato la copertina all’allora neo-presidente argentino, Javier Milei, alias “the radical”, il radicale. Libertario, anarcocapitalista, polemico, iracondo, estremista, a quasi un anno dalla sua elezione, il leader dell’ultra-destra resta un enigma per gli analisti politici. L’interrogativo che li tormenta è il medesimo di quando l’economista 53enne, noto al pubblico per i bizzarri commenti tele visivi, è approdato alla Casa Rosada: il “Leone” – come lo chiamano i fedelissimi – demolirà il modello argentino, trasformando il Paese nel laboratorio globale del neoliberismo, o si limiterà ad ampie sforbiciate sull’esempio dei predecessori Ménem e Macri?

La domanda ne sottende un’altra. Riuscirà Milei dove questi e gli altri di colore politico opposto hanno fallito ovvero far uscire la Repubblica del Plata dal ciclo di crisi in cui si dibatte ormai da quasi un secolo? O la sua ricetta – con relativi costi sociali enormi – sarà solo l’ennesimo miraggio pronto a dissolversi al minimo movimento dei mercati internazionali?

L’eccesso di aspettative nei confronti dello Stato che aveva caratterizzato l’Amministrazione di Alberto Fernández è stato sostituito da una sorta di rassegnazione collettiva ai tempi di vacche magre, nella speranza che la cura d’urto rianimi l’economia al collasso. Quest’ultima, del resto, è la chiave per comprendere l’enigma di Milei e della sua improvvisa ascesa. Come il suo modello Donald Trump, inoltre, è diffidente nei confronti dei media indipendenti che, d’altra parte, ricambiano.

Da qui l’offensiva cominciata con la scelta di non fare conferenze stampa e proseguita con la chiusura dell’agenzia pubblica Telam fino alla modifica della legge sull’accesso alla pubblica informazione in modo da concedere ampia discrezionalità al governo sui dati pubblicabili relativi al proprio operato. Milei, però, si è concentrato soprattutto nel perseguire con ostinazione il pareggio di bilancio, ottenendo perfino un inedito surplus a partire da gennaio.

I dati economici

Anche l’inflazione ha cominciato a calare. Nel 2023 aveva raggiunto l’assurda cifra del 211 per cento, la più alta al mondo. Il picco è stato raggiunto a novembre, l’ultimo dell’amministrazione Fernández, con 12,8 punti percentuali. L’era Milei si è aperta con un’impennata dei prezzi: + 25 per cento a dicembre. Poi è cominciato il crollo, sempre più rapido. A luglio si è fermata al 4 per cento, la quota più bassa dal 2022. L’euforia del governo, però, è stata di breve durata. Contrariamente all’aspettativa – ampiamente rilanciata da Milei – di una discesa ininterrotta fino alla fine dell’anno, il mese successivo c’è stato un nuovo rialzo. Lieve – 4,2 per cento – ma sufficiente per suscitare allarme alla Casa Rosada. E ridare adito alle perplessità dei critici secondo cui la ricetta presidenziale avrebbe spostato il disavanzo dal sistema bancario al Tesoro. Una mossa efficace nel breve periodo quanto insostenibile nel lungo.

I principali responsabili dell’aumento generale dei prezzi, oltretutto, sono i rincari dei trasporti, delle prestazioni sanitarie private, degli affitti e del combustibile, schizzati dopo l’eliminazione dei sussidi. Settori che hanno un impatto cruciale nella vita dei cittadini. Ancor più ora che, per raggiungere i propri obiettivi, l’esecutivo ha falciato la spesa sociale, tagliata del 35 per cento rispetto all’anno precedente: le pensioni sono state ridotte ai minimi termini, i lavori pubblici – importante fonte di occupazione – in gran parte bloccati, i ministeri dimezzati, 25mila impiegati statali licenziati, i trasferimenti di denaro alle province ridotti all’indispensabile.

Sono state perfino azzerate le forniture alle 50mila mense popolari, auto-organizzate da Chiese, movimenti e organizzazioni – da cui dipendono per sopravvivere quattro milioni di persone. L’indice della produzione industriale è crollato di oltre il 15 per cento: nemmeno la pandemia aveva avuto un impatto simile. L’attività economica si è contratta dell’8 per cento e l’occupazione di oltre 7 punti, il dato più alto dal default del 2002. Soprattutto, nel primo semestre del 2024, la povertà è arrivata a quota 52 per cento: dieci punti in più rispetto all’anno precedente in base ai dati dell’Observatorio della deuda social dell’Università Cattolica argentina.

In pratica, la metà degli argentini non ha risorse sufficienti mentre gli indigenti sono il 18 per cento. Lo scenario è drammatico. Eppure, nel secondo semestre c’è stato un miglioramento a causa del calo dell’inflazione. A preoccupare, però, è l’incremento della diseguaglianza. Il presidente, in ogni caso, è deciso a tirare dritto.

Le riforme annunciate

Eppure la mancanza di una maggioranza in Parlamento – il suo partito, La Libertad avanza, ha appena 38 deputati su 257 e 7 senatori su 72 – l’ha costretto a negoziare con la tanto vituperata “casta” per far passare il suo progetto principale: la riforma in senso ultraliberista dello Stato. La cosiddetta “Ley bases” è stata approvata a giugno dopo una dura battaglia e un drastico ammorbidimento del testo. I 660 articoli iniziali sono stati ridotti a un terzo, le quaranta aziende pubbliche da privatizzare sono diventate otto e la moratoria per il pensionamento anticipato è stata eliminata.

Il governo ha, inoltre, dovuto garantire la prosecuzione delle opere pubbliche già avviate e rinunciare alla possibilità di commissariare organismi statali legati alla scienza e alla cultura. «Il primo passo per il recupero della nostra grandezza», ha affermato un comunicato ufficiale della presidenza, «la riforma legislativa più ambiziosa degli ultimi quaranta anni».

In effetti, pur “diluito”, il cambio è rilevante. In primo luogo, viene permesso al presidente di deliberare per decreto senza il via libera del Parlamento per un anno in caso di “emergenza pubblica”. La “Ley bases”, inoltre, concede benefici impositivi, doganali, cambiari per trent’anni agli investitori che vogliano realizzare progetti di valore superiore ai 200 milioni di dollari. Per Milei si tratta di una misura indispensabile per attrarre capitali.

I rischi, sottolineati dall’opposizione, sono, però, rilevanti. Il primo è quello di infliggere un colpo letale alle piccole e medie imprese argentine, da cui deriva il 70 per cento dell’occupazione, incapaci di reggere la concorrenza dei grandi gruppi multinazionali. C’è poi la questione dell’opportunità di appaltare a questi ultimi risorse naturali strategiche, acuendo il già pesante fardello storico dell’estrattivismo che grava sulle spalle del Paese e dell’intera America Latina.

La riforma del lavoro, infine, elimina le sanzioni per chi non formalizza gli impiegati. Il che potrebbe far crescere ulteriormente il lavoro nero, in una nazione dove già dodici milioni di persone non hanno un contratto regolare, quasi la metà della manodopera, e sono i più colpiti dalla liberalizzazione, come sottolineato dall’Observatorio de la deuda social.

Le ingiustizie sociali

Nove milioni di questi sono i protagonisti della cosiddetta “economia popolare”. «Non solo si inventano l’impiego, innescano circuiti virtuosi per la comunità», spiega Alejandro Gramajo, segretario della Unión de los trabajadores y trabajadoras de la economia popular (Utep) di cui fanno parte oltre 40 organizzazioni e movimenti popolari.

Lottando insieme, negli ultimi vent’anni, hanno ottenuto la legge del 2016 che li riconosce come soggetto e assegna loro un salario minimo complementare. «Ancora, però, non abbiamo la cosiddetta “tassa unica”. Un’imposta da saldare per uscire dall’informalità e ottenere finalmente il diritto alla malattia, alle ferie, alla pensione e soprattutto accesso al credito. L’economia popolare non vuole elemosina ma credito per crescere», aggiunge Gramajo.

L’altra fondamentale conquista è stata la legge per l’integrazione degli insediamenti informali, meglio conosciuti come “villas miserias”, approvata con voto insolitamente bipartisan nel 2018. Pochi mesi dopo è nata la Secretaria per l’integrazione socio-urbana (Sisu) incaricata di portare acqua potabile, sistema fognario, case degne alle 6467 enclave in cui abitano almeno cinque milioni di persone in condizioni di povertà strutturale.

«In tre anni, abbiamo messo in cantiere 1400 infrastrutture a cui lavorano 50mila persone, oltre la metà dell’economia popolare», racconta Fernanda Miño che ha guidato l’organismo fino alla presidenza di Milei. Un modello virtuoso di sviluppo, secondo la Banca interamericana e l’Università Cattolica argentina. Eppure le 800 opere non ancora completate rischiano di fermarsi perché il governo vuole privare la Sisu della principale fonte di approvvigionamento: il 9 per cento della tassa sull’acquisto dei dollari per il turismo.

In cambio, destinerebbe all’organismo le multe alle organizzazioni sociali per eventuali manifestazioni non autorizzate, rendendo il sistema alquanto precario. Eppure, è proprio l’auto-organizzazione popolare a impedire la deflagrazione nell’attuale congiuntura, a differenza di quanto avvenuto nel 2001. Almeno fino a ora.

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