Parliamo di Libano. A giusta ragione si discute di Israele e di Hezbollah, ma il Libano, teatro del loro scontro, spesso scompare dietro i protagonisti della guerra. La missione Unifil fu inventata per preservare il più piccolo e fragile stato del Medio Oriente dai turbolenti vicini, in primis Israele, ma anche la Siria e non solo. Le frontiere libanesi sono da decenni minacciate da nord, da sud e da est: molti i paesi frontalieri che vorrebbero mangiarne un pezzo. Soprattutto c’è la questione interna: la fragile architettura del paese dei cedri è stata spesso intaccata dalle ambizioni contrapposte delle varie componenti: i cristiani (maroniti, melchiti – cioè greco-cattolici – e ortodossi), i musulmani (sunniti e sciiti), i drusi. Molta instabilità è dovuta alla mancanza di unità.

Un paese particolare

Il Libano è un paese particolare, un “messaggio”, diceva Giovanni Paolo II: l’unico luogo del Vicino Oriente in cui la coabitazione tra cristiani e musulmani ha più o meno retto, dal patto nazionale del 1943 almeno fino all’inizio della guerra civile nel 1975. Ancora oggi, dopo tanta violenza, il paese resta plurale, caso unico nella regione. I libanesi accusano i loro più potenti vicini di ciò che è avvenuto: palestinesi, israeliani, siriani.

Dopo la guerra dei Sei giorni l’Olp aveva creato un proprio feudo armato, un reale contropotere, nel cuore di Beirut, attirando sul paese gli attacchi di Israele, che infatti non tardarono. Prima di oggi già per tre volte gli israeliani hanno invaso il debole vicino, sempre con il motivo della “pace in Galilea”, come fu chiamata la grande invasione del 1982, dopo quella del 1978 (operazione Litani) e prima di quella del 2006 (operazione Giusta Retribuzione, poi modificata in Cambio di Direzione). Ancora è viva la memoria del 1982 con le truppe israeliane che assediavano Beirut, bombardandola per settimane e riducendo il centro, già martoriato dalla guerra tra milizie, in un ammasso di macerie.

A quell’epoca Hezbollah non esisteva ancora e ci fu la strage di Sabra e Shatila compiuta dai falangisti maroniti, coperti da Tsahal. Le vittime furono palestinesi e sciiti. I libanesi si lamentano infine dei siriani, che dal 1976 al 1990, sotto varie forme, hanno occupato buona parte del paese e in particolare la valle della Bekaa.

Le varie fazioni interne

Se tutte le ingerenze straniere sono state pesanti e in parte persistono, i libanesi hanno le loro responsabilità a causa delle divisioni che causarono l’inizio della guerra civile e soprattutto la difficoltà ad accordarsi per terminarla. Molto spesso nel corso di questi terribili decenni le varie fazioni politico-religiose libanesi si sono appoggiate ora sull’una ora sull’altra presenza straniera, allo scopo di aumentare la propria influenza. Oggi si parla molto di Hezbollah, il Partito di Dio, definito in Occidente un’organizzazione terroristica. Per essere precisi si tratta di un ibrido: da un lato una milizia, dall’altro un partito nazionale con i suoi deputati eletti in parlamento e riconosciuti da tutti i libanesi. È riduttivo considerare il partito sciita come una pura e semplice creazione degli ayatollah iraniani: si tratta di un’entità complessa e ambigua, sorta a causa delle condizioni economico-sociali del paese.

Per decenni in Libano il potere è rimasto nelle mani dei ceti dominanti della borghesia sunnita e cristiana, che consideravano la massa degli sciiti poveri del sud come una parte di popolazione misera e incolta. Tale separazione, più classista che etno-religiosa, ha fatto maturare dentro l’universo sciita (diventato demograficamente più numeroso) un rancore sociale di cui Hezbollah è il frutto. Allo scattare della guerra civile nel 1975, cristiani, drusi e sunniti avevano già le proprie milizie, mentre gli sciiti erano rappresentati solo dalla debole Amal di Nabib Berri (presidente del parlamento). Oggi Hezbollah è il partito armato più forte e si presenta come una forza di resistenza patriottica contro il nemico straniero israeliano.

Il nazionalismo

Malgrado l’influenza iraniana, la peculiarità nazionalistica di Hezbollah non va sottovalutata, perché spiega anche la sua persistenza a sud. Molti libanesi non amano Hezbollah ma riconoscono al Partito di Dio la funzione di difesa della nazione contro lo straniero. Qui si inserisce la questione su quale giudizio dare all’operazione delle Nazioni unite in Libano. Iniziata nel 1978, l’Unifil è uno dei più lunghi interventi internazionali, certamente la più duratura operazione per ciò che concerne l’Italia. È passata per varie fasi, da non più di 2.000 militari agli oltre 11.000 attuali. Le sue regole di ingaggio non sono semplici: se Unifil scopre armamenti o basi armate nella sua zona, deve avvisare l’esercito libanese, che è l’unico che ha il diritto di smantellarle.

Ciò spiega perché Hezbollah è sempre rimasta nel Libano meridionale: le fazioni libanesi non si sono mai accordate sul rafforzamento dell’esercito nazionale, che rimane molto debole. In qualche modo Hezbollah ne fa le veci. Va ricordato che le regole d’ingaggio sono state negoziate dall’Onu con i protagonisti, Israele e Libano in primis, senza poter essere imposte: è un’operazione di peace keeping. Affermare dunque che l’Unifil ha fallito o non è servita a nulla è quantomeno ingeneroso: è servita innanzi tutto a ritardare per decenni la guerra attuale e soprattutto a proteggere i civili. Unifil non è mai stata amata da Israele, che ha sempre lottato contro il suo rafforzamento in uomini e in regole d’ingaggio. Ma è stata contrastata anche da Hezbollah, che non ha esitato a compiere attentati. Prova ne siano le perdite: 334 morti, l’operazione più sanguinosa per dei caschi blu nella storia. Negli anni Ottanta l’Unifil è stata anche oggetto di attacchi da parte dell’esercito del Libano sud (Als), una milizia libanese al soldo di Israele, creata per proteggere la fascia di confine.

Come dice la regista libanese Myriam El Hajj: «In Libano non puoi separare gli sciiti dagli altri». La guerra anti Hezbollah sarà pure un vantaggio per le monarchie sunnite del Golfo e per chi si oppone all’influenza iraniana, ma in Libano l’attacco di Israele è percepito come una guerra di aggressione a tutti i libanesi. Il fatto che il Partito di Dio continui a colpire la Galilea viene spiegato come il risultato della mancanza di una vera trattativa che dagli anni Novanta impedisce di regolare il contenzioso israelo-libanese, di cui nemmeno la frontiera è pienamente riconosciuta (in gergo si chiama “linea blu”).

Un’altra via

Come diceva Robespierre, «nessun popolo ama i missionari armati»: gli israeliani sono stranieri, mentre Hezbollah resta comunque libanese. Toccherà ai libanesi liberarsene, se vorranno. La libertà non può venire da fuori né tanto meno con le armi: la guerra attuale – la quarta invasione israeliana del Libano – non avrà altra conseguenza che saldare tra loro i libanesi e rafforzare a termine Hezbollah dentro la popolazione. Continua El Hajj: «Non tocca a Israele o agli Stati Uniti decidere quello che è giusto o quello che è sbagliato. Anche se non ci piace Hezbollah, abbiamo un solo nemico… Penso che Israele abbia posto le basi per altri 50 anni di terrorismo. C’è molto odio nel cuore dei libanesi per la perdita del loro paese». Malgrado la forza militare di Israele, sostenuto dagli occidentali, è finito il tempo in cui l’Occidente poteva paternalisticamente imporre la soluzione di una contesa, soprattutto in Medio Oriente: la comunità internazionale (tutta) può accompagnare, ma tocca ai libanesi decidere. Non importa se i loro rappresentanti non ci piacciono: è con costoro che occorre negoziare, consapevoli che affermare (come purtroppo si fa ormai troppo spesso) che sono loro a non voler dialogare è un fake: dipende da ciò che – noi o gli israeliani – siamo disposti a concedere.

In Medio Oriente si è fatta troppa guerra e si è parlato troppo poco. E la guerra non ha risolto nulla: siamo alla quarta invasione del Libano, che presumibilmente prepara le condizioni per la quinta. Come i palestinesi, anche i libanesi non spariranno nel nulla. Non è giunto il momento di dire basta e di provare un’altra via?

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