L’articolo di Piero Ignazi comparso su queste pagine il 31 maggio punta i riflettori su una serie di questioni che credo meritino di essere trattate per i fraintendimenti che stanno generando. Anzitutto non è affatto vero che ogni manifestazione di supporto alla causa palestinese sia tacciata di antisemitismo.

Ciò che spaventa non è il supporto ai palestinesi, ma gli slogan e i toni. Inneggiare, kefiah al collo, al 7 ottobre come a un atto di resistenza, gridare «From the river to the sea», bruciare le bandiere israeliane significa, più o meno implicitamente, non riconoscere il diritto di Israele all’esistenza, ribadendo l’antico pregiudizio occidentale, che interseca una speculare retorica islamica, per cui gli ebrei devono rinunciare alle proprie caratteristiche identitarie per sciogliersi in un, tanto nobile quanto astratto, ideale di fratellanza universale.

Una rappresentazione dell’ebraismo come forma di particolarismo etico, da cui non si è riusciti a prendere le distanze nemmeno dopo la Shoà. E qui veniamo al termine “vendetta”, tante volte attribuito agli ebrei nel corso dei secoli, fino a divenire uno dei maggiori veicoli dell’immagine dell’ebreo come indifferente alle sorti degli altri.

Definire in questi termini l’azione israeliana, che pure offre un’infinità di punti politici e militari per essere criticata nei modi più aspri, non significa solo ignorare chi sia Netanyahu, che ha una storia da apprendista stregone convinto sempre di poter tenere insieme tutto e il suo contrario senza avere alcuna posizione su nulla (si vadano a vedere le sue giravolte opportunistiche anche rispetto alla questione palestinese), ma si finisce con l’essere addirittura elogiativi nei confronti della politica israeliana, mai come oggi divisa, totalmente smarrita, priva di una qualunque strategia per uscire dal trappolone in cui si è fatta colpevolmente infilare da Hamas. Contraddizioni ormai emerse alla luce del sole anche con conferenze stampa tenute dai diversi membri del gabinetto di guerra.

A fare da contraltare alle mire messianico-espansionistiche della componente del sionismo religioso, che non ha fatto mancare di conoscere la sua intenzione di rioccupare Gaza anche con oscene manifestazioni pubbliche, c’è la stragrande maggioranza degli elettori, anche di destra, che, non senza torto, dopo il sette ottobre, semplicemente, dei palestinesi non ne vuole più sapere e che non ha alcuna intenzione di rischiare le vite dei propri soldati, sprecare risorse dello Stato, diventare dei paria internazionali per occupare un luogo che vorrebbero sotto tutela dei Paesi arabi, finalmente richiamati alle proprie responsabilità. Infine, Ignazi parla di un supporto acritico delle comunità ebraiche nei confronti di Netanyahu, in realtà figura massimamente divisiva in patria come in diaspora.

Non credo che esista prova più efficace dell’autonomia dell’ebraismo diasporico del discorso che la presidente dell’Ucei Noemi Di Segni rivolse a Netanyahu durante una sua visita romana nei mesi caldissimi della riforma della giustizia, quando fu detto apertis verbis che il sostegno della diaspora a Israele è vincolato al suo restare un paese democratico. Solo chi non conosce l’articolazione del dibattito interno alle comunità ebraiche italiane può parlare di sostegno unanime e acritico. Se c’è, è piuttosto rivolto al doppiopesismo, persino sfacciato, di chi espone la bandiera palestinese da un balcone, dimenticandosi delle contemporanee crisi umanitarie che esistono nel mondo.

Magari per lisciare il pelo, come intuito, pro domo loro, dai giovani palestinesi della città, a un elettorato che si dimostra sensibile alla sofferenza solo di chi combatte contro lo Stato ebraico. È contro questa faziosità che ha, giustamente, protestato il presidente della Comunità ebraica di Bologna De Paz. Per chi lo conosce, sostenitore della soluzione a due stati e da sempre impegnato nel dialogo interculturale ed inter-religioso. Sulla definizione di «popolo eletto» utilizzata nell’articolo, così tante volte usata per definire il presunto esclusivismo ebraico, sorvoliamo per ragioni di spazio.

Ci limitiamo a dire che il termine ebraico è “segulà” e nel Talmud compare col significato di “garante”. A leggere i testi in lingua originale, si prende coscienza di quanto tendenziose possano essere le traduzioni.

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