Le milizie alla periferia della capitale, i soldati del regime in fuga. «Otto anni fa ci avevano deportato, oggi torniamo con i carri armati», racconta uno dei leader dei miliziani. La tensione è alta nella comunità cristiana. Le paure dei curdi: «Erdogan vuole completare la pulizia etnica»
Nelle concitate ore siriane caratterizzate dalla battaglia per Homs e l'accerchiamento (e la presa) di Damasco, una serie di voci siriane, schierate su trincee rivali, hanno raccontato come sia stata possibile la presa di Aleppo, il 29 novembre scorso, da parte di insorti sostenuti dalla Turchia. Un'offensiva che nel corso degli ultimi giorni ha poi proseguito, come una marcia trionfale e senza incontrare quasi alcuna resistenza governativa, russa e iraniana, verso Hama, Homs e la capitale.
L'offensiva non ha solo cacciato a est le forze curdo-siriane, che poi hanno tentato di riempire il vuoto lasciato dai lealisti lungo l'Eufrate, ma ha anche spinto alla decisiva mobilitazione altre anime dell'insurrezione del 2011 nelle regioni meridionali al confine con il Golan occupato e la Giordania. La storia di Aleppo, raccontata qui sotto, è esemplare per guardare al futuro prossimo della Siria.
«Siamo tornati a casa. Siamo di nuovo ad Aleppo. Otto anni fa ci avevano deportato a bordo di bus verdi, e ora torniamo con i carri armati». È commosso dall’emozione Abu Hamdi, uno dei primi combattenti sostenuti dalla Turchia a entrare ad Aleppo poco prima dell’alba di venerdì 29 novembre.
Abu Hamdi ha 42 anni. Non aveva nemmeno 30 anni quando scese in strada nella primavera del 2011 per partecipare alle allora massicce proteste popolari senza precedenti nella Siria degli Assad. Abu Hamdi è originario della periferia est della città, da decenni la zona più impoverita, sviluppatasi senza un piano regolatore per ospitare i contadini rimasti senza terra nelle remote regioni orientali, nei primi anni Duemila colpite da siccità e malgoverno.
«Nel 2011 il regime sparava sui manifestanti e noi siamo stati tra i primi a organizzarci nei comitati popolari di difesa», ricorda Abu Hamdi, diventato negli anni un leader dell’opposizione armata di Aleppo est, presa poi d’assedio dai governativi, dai russi e dalle milizie filoiraniane. «Esattamente otto anni fa, nel dicembre del 2016, ci hanno cacciato verso Idlib nei famigerati bus verdi. Avevo giurato che saremmo tornati. Eccoci qui. Abbiamo liberato Aleppo».
Offensiva a sorpresa
Con circa due milioni e mezzo di abitanti, la millenaria Aleppo è la seconda città della Siria. L’ingresso nei suoi quartieri da parte delle forze filoturche ha sorpreso tutti. «Nessuno si aspettava che queste milizie potessero sfondare le difese della campagna occidentale», afferma Mahmud, studente alla facoltà di ingegneria. «Quando hanno bombardato la residenza universitaria ci siamo resi conto che qualcosa di nuovo stava accadendo», racconta. «Il governo aveva detto che avrebbe mandato i rinforzi. In effetti, tra mercoledì e giovedì i rinforzi sono arrivati, ma non erano sufficienti. Mancava poi il sostegno dell’aviazione russa. E le difese delle forze filoiraniane già non c’erano più».
Mahmud racconta di come in città si sia diffuso il panico alla notizia che le forze governative si stavano ritirando. «Hanno lasciato persino l’aeroporto di Aleppo!». Non era mai accaduto dalla nascita della Siria contemporanea, nel 1946, che la capitale Damasco perdesse il controllo di Aleppo. E dallo scoppio della guerra nel 2011 non era mai successo che il governo perdesse il controllo di un aeroporto civile.
I curdi
Poche ore prima di ritirarsi, i governativi hanno informato le milizie curde – espressione locale del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) – che potevano entrare nell’area dell’aeroporto internazionale di Aleppo. «E così abbiamo fatto», spiega Berfin Helep, pseudonimo di un comandante locale delle forze curde alla periferia sud-orientale della città. «Abbiamo issato la nostra bandiera (con la stella rossa al centro) sul pennone dell’aeroporto. Ma sapevamo bene che la nostra stessa presenza, improvvisa, nello scalo aereo indicava che qualcosa di grosso si stava preparando. Eravamo al tempo stesso euforici e terrorizzati».
Nell’arco di poche ore questo delicato equilibrio è stato rotto di nuovo. E l’avanzata jihadista ha investito Aleppo e la sua periferia, giungendo alle porte dell’aeroporto civile. «I negoziati sono durati alcune ore», racconta Berfin. «Ma gli uomini delle bande pagate dalla Turchia erano molti più di noi ed erano meglio armati. Abbiamo ricevuto l’ordine dai nostri comandi di lasciare l’aeroporto». Da quel momento gran parte delle forze curde è stata costretta a ritirarsi oltre l’Eufrate, lasciandosi dietro circa 150mila tra civili e ultimi combattenti ancora asserragliati nei quartieri aleppini a maggioranza curda di Shaykh Maqsud e Ashrafiye.
La paura per Erdogan
«Da due giorni non si sentono né spari né bombardamenti. La situazione appare stabile, ma la paura è palpabile e le scorte di cibo stanno finendo», racconta Hevin, 37enne abitante curda di Shaykh Maqsud. «Non vogliamo abbandonare le case a queste bande di mercenari mandati dai turchi. Non credete a quel che dicono, che ci lasceranno in pace perché siamo loro fratelli. La verità è che (il presidente turco Tayyip Recep) Erdogan vuole completare la pulizia etnica che ha iniziato nel 2018», afferma Hevin, in riferimento all’invasione turca dell’allora enclave curda di Afrin, nel nord-ovest del paese.
Hevin racconta che suo zio Hejar, sulla settantina, è morto per il freddo e la stanchezza due giorni fa mentre cercava di raggiungere Tabqa, la prima città siriana sull’Eufrate che sta accogliendo i curdi in fuga da Aleppo. «Era in una colonna di sfollati… Dopo dieci ore di viaggio mio zio non ce l’ha fatta».
Il ruolo dei cristiani
In città ha deciso invece di rimanere la stragrande maggioranza dei circa 20mila cristiani appartenenti alle diverse chiese ortodosse e cattoliche. Appena entrati ad Aleppo, i vertici militari degli insorti hanno invitato tutti i loro quadri a rispettare i civili, quale che fosse la loro appartenenza comunitaria. «Siamo vostri fratelli», ha urlato Abu Hamdi ai balconi vuoti dei palazzi con le finestre chiuse.
Lo stato siriano in ritirata ha lasciato nuovamente che fossero i leader religiosi a occuparsi delle rispettive comunità. Così, ciascun vertice ecclesiastico ha diramato avvisi ai capi famiglia chiedendo di mantenere la calma e di chiudersi in casa in attesa degli sviluppi. Un alberello di Natale in una strada del centro moderno è stato buttato a terra da un miliziano: è stato uno dei rari episodi in cui, nei momenti convulsi dell’ingresso degli insorti ad Aleppo, sono stati presi di mira quelli che localmente vengono percepiti come simboli della cultura cristiana e, soprattutto, occidentale.
Domenica 1 dicembre, due giorni dopo l’arrivo dei jihadisti in città, le chiese hanno celebrato messa in un clima di forte apprensione. «Oltre che cristiani, siamo aleppini e siriani», afferma Joseph S. «E come tutti gli aleppini soffriamo adesso della mancanza di sicurezza e del timore di nuovi bombardamenti».
I combattenti provenienti da Idlib hanno assaltato le prigioni e liberato i detenuti. «Le carceri del regime sono piene di oppositori e dissidenti», afferma Abu Hamdi. Ma sono piene anche di criminali comuni. E in città si sono registrati episodi di saccheggi e furti nelle case disabitate. «I servizi di base sono intermittenti, ma solo nei primissimi giorni sono mancati l’acqua, il pane e l’elettricità. Gradualmente sono tornate la corrente e l’acqua e anche la benzina, ma i prezzi sono alle stelle». E gli impiegati pubblici non hanno ricevuto il loro stipendio a fine mese. Le banche sono chiuse. «C’è grande incertezza per tutti gli aleppini, quale che sia la loro religione».
La fuga
Ahmad è un imprenditore di Aleppo ed è fuggito a Damasco, abbandonando tutte le proprietà e la piccola fabbrica di tessuti che aveva riaperto dopo il 2016. È musulmano sunnita come gli insorti entrati in città, ma questo non lo mette al riparo da possibili confische. «I nuovi arrivati si sentiranno legittimati a prendersi quello che vogliono. Con la protezione della Turchia stabiliranno un nuovo potere autoritario, altro che libertà!»
Ahmad è fuggito dietro a una colonna di militari governativi. «Sono scappati senza che nessuno li avvisasse. Li ho visti fuggire impauriti e sperduti, con le coperte sulle spalle». A bordo di camion in corsa nell’ennesima notte fatale di Aleppo.
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