I volenterosi si sono riuniti. Merito di Keir Starmer, che ha preso nuovamente iniziativa dopo il vertice in presenza a Londra di inizio marzo. Continua così il tentativo del premier britannico di coordinare gli alleati dell’Ucraina, ora che dagli Stati Uniti arrivano segnali tutt’altro che rassicuranti.

Presenti anche i rappresentanti di Canada, Nuova Zelanda e Australia. E non è un dettaglio da poco vista la situazione di tensione venutasi a creare tra i Five Eyes, l’alleanza di intelligence dell’anglosfera, per le decisioni prese dalla Casa Bianca.

Questa volta il summit si è tenuto in videocollegamento ed è durato un paio di ore, con 26 leader di paesi europei e non solo. Oltre a mostrare nuova solidarietà al presidente (e presente) Volodymyr Zelensky, l’obiettivo principale è stato discutere di come continuare a fare pressione su Vladimir Putin affinché accetti il cessate il fuoco promosso da Donald Trump.

Linea dura

Starmer è il leader che ha usato più fermezza contro Mosca: «Non possiamo consentire al presidente Putin di fare giochetti sull'accordo presentato dal presidente Trump». Dalla Russia, infatti, temporeggiano nel dare una risposta netta e allo stesso tempo continuano i bombardamenti sul territorio ucraino. «Il disprezzo totale del Cremlino rispetto alla proposta di cessate il fuoco serve solo a dimostrare come Putin non sia serio sulla pace», ha ribadito Starmer.

Per questo, e se Mosca deciderà di non sedersi al tavolo della pace, «dovremo ricorrere a ogni sforzo per intensificare la pressione sulla Russia», ha aggiunto Starmer, seguito a ruota da Emmanuel Macron. Rafforzare le sanzioni quindi, ma anche definire l’utilizzo dei beni russi congelati per finanziare nuovi aiuti all’Ucraina. Tuttavia, lo stesso premier laburista ha ammesso che si tratti di «una questione complessa», soprattutto in termini legali.

Il leader britannico ha poi definito «molto importante» la pace in Ucraina per la sicurezza europea e del Regno Unito, poiché l’impatto di ciò che accade in Europa «si riversa sempre sulle nostre coste». Un concetto che rimanda al celebre discorso del “Combatteremo sulle spiagge” di Winston Churchill. Che lo abbia detto volontariamente o meno, Starmer non sembra disdegnare il momento ‘churchilliano’ che si sta ricamando addosso, con tutte le differenze del caso,

L’altra questione principale del vertice, rimasta in realtà sullo sfondo, è stato il piano di peacekeeping europeo. Troppe divergenze al tavolo virtuale e pochi sostenitori veramente convinti. Il “work in progress” per cercare di trovare una soluzione passerà a una fase più operativa giovedì prossimo, giorno in cui il premier britannico ha indetto una riunione dei vertici militari per studiare «piani pratici su come i nostri eserciti possano supportare la futura sicurezza dell’Ucraina».

Dell’invio di truppe straniere ha parlato anche Zelensky: «La pace sarà più affidabile con i contingenti europei sul campo e la parte americana come backstop». Il presidente ucraino, poi, ha descritto come un pessimo segnale il «tenere conto dell’opinione della Russia» sul dispiegamento di truppe esterne. «Il contingente deve essere di stanza sul suolo ucraino. Questa è una garanzia di sicurezza per l'Ucraina e per l'Europa. Se Putin vuole portare un contingente straniero sul territorio russo, sono affari suoi», il ragionamento di Zelensky.

Quel che dice Giorgia

Chi ha deciso all’ultimo di partecipare all’incontro è stata Giorgia Meloni. Nel dubbio che una sua assenza potesse far più parlare, alla fine ha preferito partecipare. La premier italiana è quindi rientrata nel novero dei leader volenterosi, anche se molto poco volentieri. La posizione di Roma è di voler lavorare «con i partner europei e occidentali e con gli Stati Uniti per la definizione di garanzie di sicurezza credibili ed efficaci» per Kiev. E fin qui nulla di sconvolgente.

Poi, però, Palazzo Chigi ha messo nero su bianco la contrarietà dell’Italia a inviare soldati in Ucraina, neanche dopo un futuro accordo di pace: «Non è prevista la partecipazione nazionale ad una eventuale forza militare sul terreno». D’altronde, Meloni aveva già espresso forti perplessità sulla proposta di Starmer e Macron.

Mentre, a non avere nessun dubbio se partecipare - anche perché non invitato - è stato Viktor Orban. Da una manifestazione a Budapest, il premier ungherese ha tuonato contro l’Europa e la sua «escalation sconsiderata» in una guerra, quella ucraina, in cui l’Ungheria non si farà trascinare. Orban ha parlato dell’Europa come di un «impero» che «non vuole aiutare l’Ucraina, vuole colonizzarla». Ovviamente, i riferimenti a colonialismi e imperi non sono stati indirizzati verso Mosca.

Parigi irritata con Salvini

La retorica aggressiva di Orban contro l’Europa è poco diplomatica e non è nuova. Neanche quella di Matteo Salvini contro Macron, ma in questo caso la diplomazia c’entra di più. Le recenti esternazioni del ministro dei Trasporti italiano, che ha definito il presidente francese «un matto che parla di guerra nucleare», non sono state gradite dall’Eliseo. Che ha mandato un messaggio.

Secondo Le Figaro, l’ambasciatrice italiana a Parigi Emanuela D’Alessandro è stata sentita lo scorso giovedì al ministero degli Esteri di Parigi. Non una vera convocazione, ma un incontro al Quai d’Orsay in cui le sarebbe stato riferito che le uscite di Salvini sono «in contraddizione con il Trattato del Quirinale». Insomma, a tutto c’è un limite. Anche alle dichiarazioni di Salvini, che di lavoro fa il vicepremier italiano, non solo il capo di un partito.

Tra i firmatari di quel trattato di cooperazione tra Italia e Francia c’era lo stesso Macron, ma anche l’ex premier Mario Draghi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Proprio quest’ultimo, impegnato in una visita a Gorizia per ricevere il premio Santi Ilario e Taziano, ha ribadito la «responsabilità doverosa per la realizzazione di un futuro di pace per il nostro continente».

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