Il passo indietro di Cristopher Wray appare come la capitolazione di un ex accolito diventato avversario, e perciò un’ottima notizia per il presidente eletto, che ha la porta spalancata per rifare l’Fbi a sua immagine. Ma le cose sono più complicate
Fra le preoccupazioni che consumano Donald Trump in questa transizione verso la Casa Bianca c’è la gestione dell’Fbi, una delle chiavi per assicurarsi che gli apparati di controspionaggio al servizio del dipartimento di Giustizia siano allineati ai desideri del presidente e non si azzardino ad alzare i tappeti dell’amministrazione per vedere cosa c’è sotto.
Trump ha già indicato l’ex procuratore e fedelissimo pretoriano Kash Patel come sua scelta, ma la carica del direttore dell’Fbi dura dieci anni (proprio per non essere sincronizzata con i mandati presidenziali e sottolineare la sua indipendenza dalla politica) e cacciare chi dirige è sempre un affare complicato per la Casa Bianca.
Mercoledì sera Christopher Wray, messo alla testa del Bureau proprio da Trump nel 2017, ha annunciato che si dimetterà prima dell’insediamento del nuovo presidente. Lo ha fatto dicendo che «è il modo migliore per evitare di trascinare l’Fbi in un conflitto», e ha fatto trasparire la sua preoccupazione sul destino del corpo federale quando ha detto che «ciò che non può, non deve assolutamente cambiare è il nostro impegno nel fare la cosa giusta, nel modo giusto, sempre».
Trump è stato, al solito, molto più diretto: «È un grande giorno per l’America», ha spiegato, perché con le dimissioni di Wray «finisce la strumentalizzazione di quello che è ormai noto come il dipartimento dell’Ingiustizia degli Stati Uniti». Agli occhi di Trump, Wray è colpevole di averlo tradito, specialmente quando il dipartimento di Giustizia ha nominato un procuratore speciale per indagare sul suo ruolo nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.
«Sotto la guida di Wray, l’Fbi ha perquisito illegalmente la mia casa, senza ragione, ha lavorato instancabilmente per mettermi sotto accusa e incriminarmi, e ha fatto tutto quello che poteva per minare il successo e il futuro dell’America», ha scritto ancora il presidente eletto.
Le dimissioni di Wray, che saranno effettive alla fine del mandato di Joe Biden, appaiono così come la capitolazione di un ex accolito diventato avversario, e perciò un’ottima notizia per Trump, che ha la porta spalancata per rifare l’Fbi a sua immagine. Ma le cose sono più complicate. Dimettendosi prima di essere licenziato, l’uscente direttore ha messo infatti un ostacolo sulla strada di Trump.
La legge che disciplina la successione dei direttori federali dice infatti che il presidente può rimpiazzare temporaneamente una nomina presidenziale – fra quelle che esigono la conferma del Senato – soltanto con una persona che ha già ricevuto una conferma da parte del Congresso oppure con una figura che ha prestato servizio in un ruolo di leadership nell’agenzia nei 90 giorni precedenti alle dimissioni del direttore. Patel non ha nessuno di questi requisiti, e questo significa che non potrà prendere servizio il giorno dell’insediamento di Trump.
Il presidente dovrà scegliere qualcun altro con queste caratteristiche per occupare temporaneamente il ruolo di direttore, altrimenti la carica passerà automaticamente all’ufficiale più alto in grado, in questo caso il vice di Wray, Paul Abbate, nominato nel 2021 da Biden.
Se invece Trump, una volta insediato, avesse licenziato Wray per far posto a Patel, avrebbe potuto tentare una strada procedurale più tortuosa ma non impossibile per aggirare (almeno temporaneamente) il Senato, cioè quella di un “recess appointment”. Si tratta di una procedura d’emergenza con cui il presidente può fare nomine nei momenti in cui i lavori del Senato sono sospesi.
È una via complicata ed esposta a una possibile controversia con la Corte suprema, che in passato è già intervenuta per limitare l’uso a piacimento dei “recess appointment”, ma Trump ha già esplicitamente detto che avrebbe tentato di usare quella leva per evitare l’ostruzione dei suoi avversari.
Dimettendosi, Wray ha sbarrato questa strada, costringendo Trump, una volta insediato, a far passare il contestatissimo Patel dalle forche caudine del Senato, dove non sarà facile per lui avere il parere favorevole della maggioranza.
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