Dopo la decisione, sono arrivate le motivazioni: il presidente degli Stati Uniti ha parlato alle otto di sera, le due di notte ora italiana, in diretta tv per meglio argomentare le ragioni dietro la sua decisione senza precedenti recenti nella storia, almeno da quando nel 1972 sono state istituite le primarie obbligatorie in tutti i cinquanta stati.

Prima di allora la rinuncia arrivava per gli inquilini della Casa Bianca quando la situazione era difficile e gli elettori mostravano un pesante dissenso che spaccava il partito a tal punto da portare alcuni esponenti politici a lanciare il guanto di sfida.

Così è accaduto per Lyndon Johnson nel marzo 1968, scosso dalle sconfitte subite dall’esercito americano in Vietnam e anche per un altro dem qualche anno prima, Harry Truman, pesantemente sconfitto alle primarie del New Hampshire dal senatore Estes Kefauver, uno dei suoi maggiori critici sulla gestione della guerra di Corea e sull’economia stagnante di quegli anni.

Molti anni prima, nel 1927, l’allora presidente repubblicano Calvin Coolidge aveva dichiarato che non si sarebbe candidato nel corso dell’estate mentre era in vacanza nelle Black Hills in South Dakota, mentre stava facendo trekking insieme ad alcuni giornalisti. La ragione ufficiale era la «stanchezza» per i doveri presidenziali (Coolidge aveva soltanto 55 anni), in realtà aveva pesato la sua lettura dei dati macroeconomici che avrebbe poi portato alla Grande depressione un paio di anni dopo.

La cifra di Harris

In ogni caso scegliere di lasciare la poltrona che identifica l’uomo più potente del mondo non è un compito facile. E quando lo si fa spinti dalle circostanze è sempre spiacevole. Con toni pesanti, quasi degni di un funerale. In effetti l’eredità di Joe Biden così viene celebrata dalla nuova candidata, la vicepresidente Kamala Harris, e dagli altri esponenti democratici. Anche in questo caso c’è una similitudine con Lyndon Johnson, che aveva scelto lo slogan “Lasciateci continuare” dopo l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy.

Harris, nelle sue prime uscite, sta cercando di trovare una sua cifra per arrivare a novembre con una base motivata. Una è la narrazione di sé come ex procuratrice che perseguita il «criminale condannato» Donald Trump, l’altra è quella di portabandiera dei grandi risultati raggiunti in questi quattro anni sui temi economici e sui diritti civili, compresa la legge varata a difesa del matrimonio egualitario.

I sondaggi

Un primo sondaggio di Reuters/Ipsos l’ha data in vantaggio di due punti percentuali su Trump, divario che sale a quattro punti se vengono conteggiati anche i candidati minori come l’indipendente Robert Kennedy Junior.

Poca roba, se pensiamo che quattro anni fa, a giugno, il vantaggio di Biden era di 9 punti e mezzo (per Cnn, comunque, il tycoon è avanti di tre punti), ma dimostra che è possibile prendere una strada vincente per i dem, che infatti si sentono rinvigoriti. Secondo una ricostruzione del magazine Politico, gli staffer ereditati da Biden sentono che stavolta c’è una «vera campagna elettorale».

Intanto i repubblicani hanno lanciato il primo ricorso sul trasferimento di fondi e personale da Biden a Harris, ritenendolo «illegittimo», ma è un’iniziativa legale con poche speranze di riuscita.

La visita di Bibi

Il presidente Usa, libero dagli impegni elettorali e guarito dal Covid, oggi incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che è stato invitato qualche settimana fa dallo speaker repubblicano della Camera Mike Johnson per raccontare la sua «verità» sul conflitto a Gaza. «America e Israele devono rimanere uniti. Noi insieme vinceremo», ha esordito Netanyahu davanti al Congresso.

Ma il suo discorso è stato accolto dalle proteste ed è stato disertato proprio da Harris (e da Nancy Pelosi) che, in teoria, doveva presenziare nella sua veste di vicepresidente del Senato, ma che ha preferito essere a un evento in Indiana. Sottotraccia, corre anche l’accusa dei dem a Netanyahu di aver prolungato artatamente la durata del conflitto soltanto per arrivare fino all’insediamento di Trump il prossimo 20 gennaio 2025, evitando quindi una difficile gestione del tempo di pace dove dovrebbe rispondere su vari temi di fronte all’opinione pubblica, non ultimo il fallimento dell’intelligence di Tel Aviv lo scorso 7 ottobre.

Il premier israeliano vedrà il tycoon, con il quale ha rapporti altalenanti ma comunque migliori di quelli che potrebbe avere con Harris, nella sua residenza di Mar-a-Lago. Nel frattempo, al Cairo, sono ripresi i colloqui per un possibile cessate il fuoco. E il risultato delle presidenziali, tornato in bilico, fa sfondo a un conflitto che si prolunga senza una precisa ragione.

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