C’è chi l’ha ribattezzato la Norimberga dei crimini predatori europei in Africa. Il processo che a Stoccolma vede alla sbarra la compagnia di estrazione svedese Lundin Energy – ora Orrön Energy – accusata assieme ad altre aziende europee di crimini di guerra e contro l’umanità per acquiescenza, se non complicità, nelle deportazioni di massa e nelle stragi perpetrate dal governo sudanese tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del secolo per permettere l’estrazione del petrolio, potrebbe riscrivere la storia. E, da quando a settembre le udienze hanno preso il via nella capitale scandinava, si sono riaccese le speranze che le decine di migliaia di vittime e i loro cari ottengano giustizia dopo anni di attesa.

In questi giorni sono iniziate le audizioni dei sopravvissuti e dei familiari di chi ha perso la vita. Domani ne ha raggiunti due, James Ninrew, portavoce di Liech Victims Voices, l’organizzazione dei sopravvissuti alla guerra del petrolio nell’area di concessione della Lundin denominata Block 5, e George Tai, avvocato e vittima, anche lui cresciuto nel Block 5.

La storia

Prima di ascoltare le loro voci, ricostruiamo i fatti e la storia del processo. Il luogo del delitto è lo Stato dello Unity, una zona all’epoca appartenente al Sudan, entrata a far parte nel 2011 del Sud Sudan indipendentizzatosi da Khartoum. È qui che negli anni Ottanta vengono scoperti enormi giacimenti petroliferi che, di lì a qualche anno, innescano l’interesse di compagnie europee in cerca di concessioni. L’allora presidente sudanese Omar al Bashir, uno degli autocrati peggiori della storia contemporanea, fiuta l’affare insperato e lancia una vera e propria campagna di deportazione per liberare le aree dalla popolazione e consentire agli occidentali di perlustrare e cominciare a estrarre petrolio in tutta tranquillità.

La strategia trasforma in breve un’area di circa 30mila chilometri quadrati in una vera e propria emergenza umanitaria: alla popolazione che prova a ribellarsi alle deportazioni di massa, al Bashir risponde con il sangue. Secondo le stime più accreditate, le vittime furono oltre 12mila solo nell’area destinata alle estrazioni della Lundin. Le dettagliate ricostruzioni raccolte e depositate agli atti dalla European Coalition on Oil in Sudan (Ecos), un gruppo di ong attive in Sudan e Sud Sudan e presenti nell’area durante la Seconda guerra civile (1983- 2005), dimostrerebbero inequivocabilmente le responsabilità della Lundin Energy in uno spettro che va dal disinteresse nei confronti delle immani sofferenze perpetrate contro la popolazione sotto i loro occhi, passando per la complicità, fino, addirittura, alla compartecipazione attiva negli eccidi.

Nel 2010 la Ecos ha consegnato alla procura svedese una mole enorme di documentazione con annessa richiesta di indagine. I sospetti maggiori cadevano sulla Lundin Energy, molto attiva tra il 1997 e il 2003 nel Sudan meridionale, e nel giugno dello stesso anno l’autorità giudiziaria svedese ha avviato un’indagine preliminare passata alla storia come una delle più ampie inchieste mai condotte dalla giustizia dello stato scandinavo: 150 persone sentite, 270 interviste, e circa 80.000 pagine di atti.

Dopo oltre un decennio di attesa si è arrivati, lo scorso 5 settembre, al clamoroso inizio di un percorso che potrebbe marcare un punto storico nel giudizio sulla presenza occidentale pre e postcoloniale in Africa. Se la Lundin/Orrön Energy e le altre aziende saranno condannate, infatti, una eventualità che fino a qualche anno fa sembrava remota ma che si fa ora plausibile, sarebbero le prime compagnie europee a dover rispondere non solo di sfruttamento o riduzione in schiavitù, ma di crimini di guerra e contro l’umanità.

Le testimonianze

«Sono uno dei sopravvissuti alla guerra che si è scatenata nell’area dove si trovava la maggiore quantità di petrolio», spiega James Ninrew . «La Lundin ha firmato un primo contratto con il governo nel 1997, e poi all’inizio del 1998 sono cominciate le esplorazioni. All’epoca, tutta quell’area era contesa tra il governo e gruppi di opposizione come il Sudan People Liberation Army (Spla), e c’era molta tensione, Khartoum non aveva il pieno controllo. Nonostante ciò il governo firmò il contratto per la concessione dell’area impegnandosi a garantire la sicurezza, senza che la popolazione e i movimenti politici fossero informati. Dichiararono di essere pronti a contrastare ogni pericolo e promossero azioni militari operate sia dall’esercito che da milizie paramilitari».

Come agivano? «La strategia prevedeva tre tipi di azione. Innanzitutto bombardare l’area da grande altitudine e a macchia di leopardo per far allarmare le persone e farle scappare. Poi bombardare con elicotteri da distanze ravvicinate al fine di colpire gli individui che si rifiutavano di lasciare i luoghi, e, infine, inviare truppe via terra che uccidessero gli ultimi sopravvissuti. Poi si passava all’area successiva. Nel frattempo la Lundin prendeva possesso della zona sgomberata, costruiva strade e trasportava il materiale».

Una sorta di strategia a metà tra pulizia etnica e landgrabbing. «Nel giro di poco tempo l’area divenne un teatro di guerra, migliaia di morti, sfollamenti continui, io stesso con la mia famiglia sono dovuto fuggire varie volte. Assistemmo ad atrocità terribili, tutti perdemmo le nostre proprietà. La Lundin pagava, e con i soldi il governo continuava la campagna di sgombero che rendeva l’area attrattiva per nuove compagnie petrolifere. I soldi arricchivano la cerchia del presidente e servivano per comprare armi, pagare soldati e milizie».

«Avevo solo 14 anni», dice George Tai, «eravamo a scuola e abbiamo sentito la notizia di alcuni combattimenti in atto. Restammo molto sorpresi, perché nella nostra zona non avvenivano scontri. Improvvisamente vedemmo molti militari e cominciarono i bombardamenti. Davano alle fiamme città e villaggi, uccidevano tutti. Siamo potuti tornare solo dopo una settimana, trovammo una città fantasma, molti cadaveri, tra cui mio padre».

Ma sapevate il motivo degli attacchi? «Assolutamente no, non sapevamo neanche che sotto i nostri piedi ci fosse così tanto petrolio. Poi quando vedemmo il personale della Lundin cominciammo a capire. Le milizie le pagava direttamente la Lundin, che forniva anche basi logistiche, munizioni e armi. Ci sono molte evidenze di questo, è inutile che neghino. Ovviamente pagavano anche il governo, e i generali prendevano i soldi e li usavano per costruire le strade per la Lundin e per uccidere. C’è poi un altro elemento di grave colpevolezza: all’epoca il governo del Sudan era isolato dalla comunità internazionale perché impegnato in un’atroce guerra in Darfur (per la quale nel 2010 ci fu la condanna per crimini contro l’umanità,tra le 200 e le 300mila vittime, 2,5 milioni di sfollati, ndr). La Lundin ha firmato contratti con questa gente».

Come sta procedendo il processo a Stoccolma che si prevede finisca nel 2026? «Non sarà facile, hanno avvocati potentissimi e usano ogni mezzo, io sono un legale oltre che una vittima e ho subito gravissime intimidazioni a Juba dove vivo (ora è rifugiato con la famiglia in Uganda, ndr). Inoltre hanno adottato una strategia molto subdola: hanno diviso la compagnia in due sezioni, una delle quali è registrata in Norvegia e detiene il 95 per cento delle azioni. Se la procura svedese li riterrà colpevoli e li condannerà a pagare noi vittime, diranno che non hanno abbastanza fondi in Svezia. Abbiamo insistito perché la Norvegia non accettasse questa operazione visto che c’era un processo in atto, ma hanno molto potere. Inoltre la corte svedese ha voluto separare la parte civile, con la questione della compensazione, da quella penale. Quindi se la Lundin sarà condannata si aprirà una procedura per tutti quelli che vorranno chiedere un risarcimento, i quali dovranno anticipare le spese legali, di viaggio e alloggio perché il processo è a Stoccolma: per la maggior parte sarà impossibile. In ogni caso, è fondamentale che il processo vada avanti e che attraverso di voi giornalisti tutto il mondo sappia cosa hanno fatto le compagnie europee in Sudan».

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