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A Calais i giovani migranti muoiono investiti dai tir, mentre altri sopravvivono senza né cibo né acqua. Mentre i volontari cercano di dare loro conforto, i sogni si infrangono sul limite invalicabile del mare.
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Ma il flusso migratorio è inarrestabile. Secondo gli ultimi dati della prefettura di Calais, nel 2020 sono stati almeno 9.551 i richiedenti asilo che hanno raggiunto le coste inglesi sulle barche.
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«Sono andato via da Sulaymaniyya, nel Kurdistan Iracheno, un anno e mezzo fa» racconta Serwan, nome inventato per garantirgli la sicurezza, 21 anni. «Grecia, Turchia, Calabria. E dopo il confine franco-italiano a Oulx, prima di raggiungere Parigi e Dunkirk. Adesso voglio solo raggiungere la mia famiglia a Londra, studiare e diventare medico».
Un giovane a Calais il 21 ottobre scorso è morto investito da un tir. Non si conoscono ancóra la sua età, la nazionalità e il nome. È morto come Yasser, 16 anni, sudanese, investito da un mezzo pesante nell’area logistica del Transmarck, il 28 settembre scorso, mentre cercava di entrare in un rimorchio per raggiungere l’Inghilterra. Tra l’ultima settimana di ottobre e la prima di novembre altre quattro persone sono morte, tre delle quali annegate, mentre cercavano di passare la Manica.
L’11 ottobre, dopo la morte di Yasser, tre cittadini francesi – Anaïs, Ludovic e Philippe – due attivisti e un cappellano, hanno iniziato uno sciopero della fame nella chiesa di St. Pierre nel centro di Calais. Philippe, 72 anni, ha cessato il 25 ottobre lo sciopero della fame, continuando a sostenere i suoi due compagni fino a mercoledì scorso, quando anche loro hanno deciso di sospenderlo.
Hanno fatto tre richieste. Innanzitutto – spiega Anaïs – «la sospensione delle espulsioni e dello smantellamento dei campi nel periodo della cosiddetta tregua invernale, mai rispettata per i rifugiati a Calais». Poi «la fine dei sequestri delle tende, e degli averi dei rifugiati, che avvengono illegalmente e sistematicamente durante gli sgomberi». Infine l’apertura di un «vero dialogo» tra la prefettura e le associazioni non delegate dalle autorità. Per Ludovic questa lotta ha già ottenuto un risultato: «risvegliare un movimento di solidarietà, assumere una posizione chiara e inequivocabile di fronte a quanto sta succedendo». La questione, afferma Philippe «è fermare la continua ripetizione dei medesimi orrori». Nonostante la sospensione, in un comunicato stampa, Ludovique ed Anais hanno affermato comunque che «la loro lotta in sostegno ai migranti non si fermerà».
Un flusso inarrestabile
Il forte vento agita le onde nel mare del canale della Manica e fa oscillare i traghetti che raggiungono le coste francesi. All’orizzonte, a 50 chilometri dalle spiagge di Calais, si vedono le bianche scogliere di Dover. Dalle dune di sabbia che costeggiano questa città, il Regno Unito non sembra troppo lontano.
Eppure, una lunghissima rete metallica e il filo spinato attorno all’area del porto di Calais ricordano che Londra non è vicina per tutti. Metri e metri di recinzione che costituiscono il famoso muro anti-migranti edificato nel 2016 a seguito del brutale sgombero della Jungle di Calais, per impedire ai rifugiati di entrare nel Regno Unito saltando sui tir fermi al porto o in coda sulla tangenziale.
Ma il flusso migratorio è inarrestabile. Secondo gli ultimi dati della prefettura di Calais, nel 2020 sono stati almeno 9.551 i richiedenti asilo che hanno raggiunto le coste inglesi sulle barche. Solo nella notte tra il 9 e il 10 ottobre scorso, come riportato dall’Ansa, circa 1000 persone sono state salvate o intercettate a bordo di piccole imbarcazioni mentre lasciavano la Francia.
Senza cibo e acqua
Se la notte è serena, non è difficile vedere piccole lucine intermittenti brillare tra le stelle. Non sono satelliti ma droni che controllano i 70 chilometri costieri su Boulogne, Calais e Dunkirk. L’uso dell’alta tecnologia per il controllo delle coste, un maggiore schieramento delle forze dell’ordine sul litorale francese anche a Dieppe, più a Nord Ovest da Calais, e i maggiori investimenti nelle infrastrutture utili a bloccare l’accesso alla frontiera della Manica, rientrano fra i punti del patto sul contrasto all’immigrazione approvato lo scorso 20 luglio da Priti Patel, ministra degli Interni inglese, e Gerald Darmanin, ministro dell’Interno francese.
«Il canale della Manica è molto pericoloso. Nonostante ciò, ogni giorno c’è chi prova ad entrare nel Regno Unito anche via mare», spiega Emma della Human Rights Observers, ong che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani in questa zona.
E così tra Calais e Dunkirk, oltre 1.800 persone vivono in condizioni precarie negli slums dove attendono di partire alla volta del Regno Unito. Qui, sebbene l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, indichi che l’approvvigionamento di acqua non debba distare oltre 500 metri dal luogo di residenza, i rifugiati percorrono anche cinque chilometri per avere un po’ di acqua. La situazione è stata resa ancor più drammatica dal divieto emesso dal sindaco di Calais per impedire la distribuzione di cibo nel centro città, spingendo le persone a restare distanti dal centro abitato.
«Chi riside negli slums è oggetto di abusi fisici e psicologici. A chi viene deportato viene assegnato un numero di matricola. Gli sgomberi sono condotti con modi intimidatori e violenti dalla gendarmeria a Calais e dai Crs a Dunkirk», dice Emma.
Diventare medico
È quasi mezzogiorno e a Grande Synthe, in un magazzino adibito a cucina, alcuni volontari dell’associazione Salam finiscono di preparare il pranzo destinato ai rifugiati che vivono nella Jungle di Dunkirk. «Ci sono molti bambini e tante persone arrivano da Kurdistan, Afghanistan e Vietnam» dice Tita, una volontaria emigrata dalla Calabria che anni fa è arrivata in Francia.
«Non possiamo lasciar morire di fame tutta quella gente!» esclama la donna salendo sul furgone diretto allo slum. Tra Grande Synthe e Dunkirk, in un piazzale tra la ferrovia e i capannoni industriali, c’è già molta gente ad attendere un pasto caldo. Un ragazzo intona una canzone in sorani, mentre le persone si mettono in fila.
«Sono andato via da Sulaymaniyya, nel Kurdistan Iracheno, un anno e mezzo fa» racconta Serwan, nome inventato per garantirgli la sicurezza, 21 anni. «Grecia, Turchia, Calabria. E dopo il confine franco-italiano a Oulx, prima di raggiungere Parigi e Dunkirk. Adesso voglio solo raggiungere la mia famiglia a Londra, studiare e diventare medico».
Solo un viaggio
Seguendo una stradina sterrata piena di pozzanghere, dal piazzale si arriva a una distesa di tende. C’è chi monta una baracca o cucina kebab, mentre in mezzo al fango una bambina immagina di essere una ballerina. «Sono stato respinto per due volte dalla polizia. La prima volta sono stato rimandato in Afghanistan, ma poi sono tornato in Europa» ricorda Abro, anche lui con il nome inventato, 29 anni, in fuga da Kabul. «Ho vissuto molto tempo in Germania. Lì ho lasciato la mia ex compagna e mia figlia. Ha solo 9 mesi. Se stanotte non dovessi entrare nel Regno Unito, allora tornerò da loro e chiederò asilo».
All’Old Lidl, l’insediamento più numeroso a Calais, vivono circa 400 persone, vicino al parcheggio del Transmarck. Noleen sta curando un’ustione alla gamba a un ragazzo eritreo «Spesso ci troviamo a curare ferite causate dalla violenza della polizia. Alcuni mesi fa, un uomo era stato morso agli arti e alla testa da un cane della polizia».
First Aid Support Team assicura cure di base a molte persone nei campi. Ali è sudanese e dà loro una mano come traduttore «ormai posso fare io il dottore!» esclama ridendo. Ha studiato due anni medicina in Ucraina. A Kiev però non poteva neanche uscire di casa «la gente è violenta e c’è molto razzismo, mi sentivo in prigione». È arrivato a Calais da pochi giorni. «Cerco di pensare che sto solo facendo un viaggio, dopotutto posso sempre tornare indietro» sorride, scartando una caramella per la gola.
Fuori dalle tende
«È una bella storia quella di Amal – dice Mohannad da dietro il suo bancone a Grande-Synthe – viene dalla Siria come me, attraversa tutta l’Europa come rifugiata. Ma non mi ricordo, deve incontrare i genitori in Inghilterra? Sapete se è una storia vera?». In attesa di una risposta mette a scaldare i falafel «scappando dalla guerra sono venuto qui, sono stato tanti mesi nella jungle, poi ho deciso di rimanere e ho provato a realizzare il mio sogno, aprire un ristorante».
Anche a Calais sono stati i bambini ad accogliere la marionetta della Piccola Amal ma la consueta performance si è trasformata in una vera e propria manifestazione di protesta in sostegno allo sciopero della fame. Centinaia di persone hanno sfilato tra tamburi e canti di lotta. Sul cartello di un bambino si leggeva “Nessuno è illegale”, mentre un altro ricordava che “si è bambini fino a 18 anni”. Yasser ne aveva solo 16.
Senza scarpe, stretti nelle spalle, un gruppo di giovani eritrei si fa attorno a una volontaria. Sono naufraghi. Consumati dalla fatica, restano immobili. Solo gli occhi sono accesi. «Siamo partiti da Boulogne ma dopo 18 chilometri il motore del gommone si è rotto. Il mare era pieno di correnti, abbiamo chiamato ma nessuno ci ha soccorso! Siamo tornati remando, ci sono volute cinque ore», racconta Nahom mostrando un video sul proprio telefono.
Hanno raggiunto la spiaggia da soli e hanno poi camminato per oltre un chilometro scalzi sull’asfalto, prima di raggiungere il furgone di Collective Aid a Coquelles che sta distribuendo vestiti e scarpe. Kayleigh prende nota, per la distribuzione delle scarpe di oggi pomeriggio bisogna aggiungere le nuove richieste.
Il telone impermeabile schiocca sotto i colpi del vento. Il tè e il caffè sono bollenti, in un groviglio di cavi colorati vengono caricati telefoni, in tanti vengono a sedersi sulle panche al riparo del furgone dell’Info Bus. Dalla cassa esce a tutto volume musica eritrea.
Il vento forte da sud ovest spazza il parcheggio alle spalle della pista da BMX di Calais dove sono state spostate le tende durante lo sgombero della mattina, un passeggino vuoto viene spinto contro la recinzione dal vento. «Stamani è arrivata la polizia – spiega Emma di Hro – qualcuno però non si era svegliato, li hanno trascinati fuori dalla tenda e gli hanno portato via tutto». Alcune tende si rovesciano. Un ragazzo si sfila la giacca per coprire le spalle ad un amico che non cessa di battere i denti. «Eravamo noi quelli che sono stati tirati fuori dalla tenda stamani, durante lo sgombero» dice Daniel serrando le labbra.
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