«Donald Trump, è un fascista». Gli ultimi colpi di Kamala Harris nella battaglia per le presidenziali americane ritirano fuori dall’agenda un tema da tempo noto all’elettorato americano: la vittoria dell’avversario repubblicano metterebbe a rischio il benessere e la sicurezza degli Stati Uniti d’America, con una pericolosa virata autoritaria.

Non che le parole della candidata dem non siano fondate su un principio di realtà, ma sembrano davvero poco seducenti per quella middle class impoverita e indebitata che ha visto negli ultimi anni crollare il suo asset primario; ovvero la proprietà immobiliare e la perdita del potere d’acquisto.

Il pedigree liberal (di chi proviene dalle città grandi e ricche come New York, con tanto di star pop chiamate a fare da endorsement) non le ha certo giovato in campagna elettorale e a di là di come andrà il voto del prossimo 5 novembre, sarà interessante capire quanto l’acuirsi della polarizzazione tra avversari (che ormai si percepiscono come nemici da annientare) abbia o meno aggravato lo stato di salute della democrazia americana, già piena di disfunzionalità.

La questione razziale mai estinta, che esclude ancora molti giovani dall’accesso all’istruzione, il recupero di uno straccio di credibilità in politica estera, dopo le numerose debacle di Joe Biden, dal molo per gli aiuti umanitari a Gaza, costosissimo, e smantellato in poco tempo, all’incapacità di determinare un processo di pace sul fronte ucraino, divenuto ormai un sacrificio di Abramo con migliaia di caduti ventenni, che hanno la stessa età dei miei studenti.

Il messaggio di Trump è molto più potente (e lo sarebbe anche senza la campagna elettorale): io sono il combattente che tornerà a fare grande l’America, il capo che scende tra la folla perché come il suo popolo è vittima del sistema.

Ovvero di un complotto ordito dalla politica, dalla giustizia, dalle istituzioni. Mostrarsi col volto ferito, dopo l’attentato in Pennsylvania e addossare la colpa ai democratici e alla sinistra, è stata una mossa molto abile per mistificare la realtà di un paese dove l’80 per cento degli atti di violenza negli ultimi dieci anni, porta il marchio della destra suprematista bianca e razzista. La storia della democrazia americana è piena di scontri e sangue (non bisogna certo scomodare la guerra civile del 1861-65, o il razzismo antiitaliano del primo dopoguerra col caso di Sacco e Vanzetti e nemmeno gli omicidi di John Fitzgerald Kennedy e di Martin Luther King negli anni Sessanta).

Le definizioni 

Vale però la pena di riflettere su ciò che questo clima racconta dell’America che da sempre si ritiene la nazione eletta da Dio, nell’esportare democrazia e civiltà. Davvero con Trump c’è il rischio del ritorno del fascismo? Non sarà che l’uso continuo del termine “fascismo” (intenzionalmente inflazionato da usi e abusi della storia) nasconde una certa incapacità nel leggere e interpretare con parole nuove fenomeni legati alla crisi profonda della democrazia (non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo occidentale)? Il fascismo (se lo intendiamo come soppressione delle libertà civili e politiche da parte di un partito milizia, culto del capo carismatico, uso della forza per reprimere qualsiasi forma di dissenso e tentativo di trasformare antropologicamente gli italiani in una razza guerriera) è un’esperienza storica morta e definitivamente sepolta nel 1945.

Certo, destano ancora inquietudine quei sentimenti nostalgici e quelle liturgie commemorative organizzate da gruppi di estrema destra, in crescita in buona parte d’Europa. Gruppi che mettono in allarme i social e la rete per i loro marcati caratteri identitari: esaltazione della violenza, disprezzo profondo per la democrazia parlamentare, appelli alla mobilitazione della piazza e alle sue pulsioni irrazionali, esaltazione dell’uomo forte, primato della sovranità nazionale e ostilità verso gli immigrati.

Il grande assente

Ma è questo a mettere in crisi la nostra democrazia? Come storica (ammesso che non si voglia cavalcare la leggenda nera di un fascismo mai morto, eterna frottola per pseudostorici sempre in cerca di visibilità), l’unica risposta plausibile è un chiaro e secco no. Nel nuovo millennio, il fascismo è diventato un’industria commerciale che fa vendere molti libri o assicura ospitate in tv, mentre l’antifascismo sembra ormai tramutato in uno stereotipo, da tirare in ballo in maniera intenzionalmente provocatoria. Sarebbe invece il caso di trovare parole nuove per il mondo che abbiamo davanti, nel nostro presente.

Perché della democrazia parlamentare, minacciata da sovranismi e nazionalismi, non resta oggi che il metodo democratico, che permette di eleggere (democraticamente e pacificamente) qualsiasi tipo di governo, anche governi xenofobi, razzisti o antiliberali. Il grande assente della nostra contemporaneità è invece l’ideale democratico, come dimostra lo scarso interesse delle classi dirigenti verso temi quali la distribuzione della ricchezza e il superamento delle disuguaglianze.

E al di là di come andranno le elezioni in America, è chiaro che il bene dei cittadini continuerà a essere, chissà ancora per quanto tempo, subordinato a interessi particolari. Il che è molto distante dal proposito di realizzare una società di liberi e uguali, come democrazia vorrebbe.

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