It’s the economy, stupid!”, recitava lo slogan vincente di Bill Clinton, rimasto nella storia perché afferrava lo spirito di quel tempo. Era l’economia ciò che sommamente stava a cuore alle persone, e perciò era quello di cui doveva principalmente occuparsi il governo. L’andamento degli indicatori economici era tutto, il resto sarebbe venuto di conseguenza. Donald Trump ha rovesciato definitivamente il motto clintoniano. La sua versione sarebbe: “È la cultura, stupido”.

Tutto il mondo osserva atterrito la tempesta di imperiose decisioni e capricciosi decreti che ogni giorno viene generata dalla Casa Bianca, alla ricerca di una qualche logica, e forse una chiave interpretativa sta emergendo. Lo scopo che tiene insieme tutte le manovre, dai tagli forsennati alla burocrazia ai dazi, fino all’abbandono dell’Ucraina, è lo smantellamento dei precetti della cultura progressista, da sostituire con una nuova egemonia culturale. Da questa rivoluzione discenderà tutto il resto.

Ieri Trump ha confermato questa tendenza con l’ordine esecutivo che impone la liquidazione del dipartimento dell’Educazione, misura già ampiamente propagandata, che corrisponde al desiderio dei repubblicani di radere al suolo quello che è sentito come centro di indottrinamento e diramazione dei dogmi della cultura woke. Ma questo è solo l’ultimo esempio. La prima raffica di ordini esecutivi dopo l’insediamento andava letta interamente attraverso la lente della guerra culturale. Il presidente ha ordinato il ritorno ai due sessi nei documenti ufficiali, ha posto fine al sistema di quote per le minoranza, ha aperto la grande caccia ai corsi per la diversità e l’inclusione in tutte le stanze di Washington.

Il Doge di Elon Musk non taglia dipartimenti e programmi solo per efficientare e risparmiare fondi (quello è un gradito effetto collaterale), ma per eliminare o depotenziare i gangli della pubblica amministrazione dove si è insediata una certa cultura progressista. I dazi avranno effetti disastrosi sull’economia americana, ma comunicano un’idea nazionalista, parlano agli istinti autarchici di un paese che sente di doversi liberare da un virus progressista, come scrive Musk più volte al giorno su X.

Le operazioni di Usaid sono state bloccate perché il budget da 80 miliardi di dollari che gestisce finisce per l’80 per cento a ong di atmosfera terzomondista e di sinistra o a centri filantropici liberali di George Soros e compagnia. Anche il sostegno all’Ucraina è concepito, dall’elettorato di Trump, come il simbolo dell’adesione alla super ideologia del corrotto occidente progressista che ha tradito la sua vocazione originaria, mentre la Russia di Vladimir Putin è il bastione della moralità che si oppone a tutte le wokerie di questo mondo, che sono state peraltro diffuse ovunque anche attraverso i cannoni della Nato.

Il discorso di Trump al Congresso è stato dominato dalle questioni di politica culturale, non dal prezzo delle uova. «Abbiamo messo fine alla tirannia delle cosiddette politiche della diversità, equità e inclusione nel governo federale, nel settore privato e nell’esercito. Il nostro paese non sarà più woke», ha detto Trump. I passaggi più efficaci del suo lunghissimo comizio-sermone sono state le implacabili carrellate in cui ha elencato gli sprechi di denaro pubblico per iniziative che erano parodie delle idee progressiste, la lotta ai maschi biologici negli sport femminili, la restaurazione del “senso comune”, uno dei cavalli di battaglia della sua presidenza. Il prossimo fronte di battaglia è quello delle università, i veri propulsori dell’ideologia woke, per i quali la Casa Bianca ha pronto un trattamento analogo a quello riservato a Zelensky.

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