Improvvisamente, messi davanti alle conseguenze delle loro parole, i politici nostrani (e commentatori vari) fino a oggi sostenitori acritici della guerra in Ucraina fanno retromarcia. È bastato che il presidente francese Emmanuel Macron dicesse apertamente ciò che era evidente nei fatti per creare il panico generale. Nessuno vuole andare a combattere. Ma nessuno fa autocritica dopo aver ripetuto che la Russia si doveva battere e spaccare, che era agli sgoccioli, che non aveva più armi o missili ecc. Dopo tanta propaganda e retorica della vittoria, ora che si è giunti davanti all’inevitabile, cioè alla reale difficoltà sul campo di battaglia già da tempo evidente, ci si tira indietro. Meglio tardi che mai.

Le parole sagge di Guido Crosetto lasciano ben sperare. Chi sin dall’inizio di questa sciagurata guerra è stato favorevole al negoziato – prima che fosse troppo tardi – ed è stato accusato di resa o peggio, in realtà aveva ragione: la Russia non si può battere, meglio trattare. Succede ciò che era stato previsto dai più lucidi. Come scrive Nava sul Corriere, «non c’è possibilità di vittoria per l’Ucraina e si comincia a pensare alla spartizione». In tale direzione dovrebbe andare il contributo italiano. Macron dice una cosa evidente: se la Russia continua ad avanzare arriverà il momento in cui saremo tutti coinvolti direttamente.

Truppe speciali britanniche e francesi sono già sul terreno. Ora si vede davvero che è meglio il negoziato anche senza recuperare tutti i territori perduti. Se si trattava prima, forse se ne perdevano di meno. Dal punto di vista militare si è fatto molto, ma ciò che manca sono gli uomini: l’Ucraina si è dissanguata e non ha più braccia per la guerra. Per questo Macron parla di soldati e non solo di armi, facendo cadere il velo dietro al quale ci si è celati. Sarebbe da ammettere che si è fatto il gioco di Putin lasciandoci trascinare sul suo terreno, quello del conflitto.

Occorre sfidarlo tornando sul nostro terreno: quello diplomatico e della pace, cioè dell’ordine e della stabilità internazionali. Su tale materia sarà giudicato anche dal Global South, e non può permettersi politicamente una guerra permanente che metta tutti a rischio. È giunto il momento di parlarsi: si discute con l’avversario e il nemico, non con chi è già d’accordo come si vorrebbe fare inutilmente a Locarno (a meno che la Cina non sia presente ad alto livello). Possibile che ogni tentativo di mediazione sia stato lasciato alla Turchia invece che divenire un’iniziativa europea? Questo vale anche per Gaza.

Macron fa la voce grossa sperando di arrestare l’avanzata russa. L’Italia dovrebbe fare il suo: mediare. Lo ha sempre fatto durante la Prima Repubblica. Tutti ricordiamo il momento d’orgoglio di Sigonella con Craxi, ma c’è stato altro. Fanfani addirittura provò a negoziare sulla guerra del Vietnam, triangolando con la Polonia comunista, senza che gli americani si offendessero. Erano le operazioni Marigold e Killy, condotte sul terreno dall’ambasciatore D’Orlandi. Ci sono tanti altri esempi. Ora che la Francia ha detto ciò che potrebbe fare (senza coinvolgere la Nato perché si tratta di un’opzione bilaterale che concerne un paese non membro), ci si deve chiedere cosa dal canto suo l’Italia può mettere in campo.

Tradizionalmente ciò che riesce meglio al nostro paese è provare a ritessere il dialogo tra nemici, parlando con le parti. Questo non mette in discussione le nostre alleanze o lo schieramento atlantico, ma mostra l’originale contributo italiano. Si è detto e ridetto che le parti non vogliono parlarsi, ma si tratta di un’ovvietà: è sempre così all’inizio. Infatti non si tratta di cosa facile: fare la navetta, sforzarsi di trovare un terreno comune, impegnarsi diplomaticamente è sempre defatigante e molto complesso. Chiedetelo ai diplomatici di carriera o a chi lo fa per vocazione.

Tuttavia è questa la strada che deve essere battuta e sulla quale nessun europeo od occidentale si è finora cimentato, preferendo fossilizzarsi in “modalità guerra”, che ora per l’appunto genera frutti amari. Va detto anche che nessun occidentale ha l’esperienza italiana in tale settore, fatta di flessibilità, pazienza e resilienza. Tocca quindi all’Italia, magari in collaborazione con altri. Pur mantenendo ferme le proprie alleanze, l’Italia repubblicana non si è mai collocata in maniera ideologica o contrapposta in nessuna crisi mondiale. Fin dal Secondo dopoguerra la ricerca di un’originale collocazione internazionale ha prodotto una densa cultura politico-diplomatica basata sul principale interesse nazionale: la stabilità. È venuta l’ora di mettere tale risorsa a disposizione di tutti e della ricostruzione di un’architettura stabile e pacifica in Europa. Che l’Italia lo faccia da par suo.

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