Oltre cento per ogni versante: 103 prigionieri liberati per l’Ucraina, 103 per la Russia. Il grande scambio di prigionieri è stato pubblicizzato dall’agenzia russa Interfax, nelle stesse ore in cui il premier laburista britannico Keir Starmer e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden discutevano a porte chiuse della possibilità di autorizzare missili a lunga gittata per colpire la Russia.

All’uscita dall’incontro, nessuna decisione di questo tipo è stata ufficializzata. Non vuol dire che non sia rimasta sul tavolo. «La riunione tra i due è stata interlocutoria», secondo il ministro degli Esteri del governo Meloni, Antonio Tajani. Intanto Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato che si appresta a lasciare il posto a Mark Rutte a ottobre, ha dichiarato che «avremmo dovuto fare di più per prevenire la guerra in Ucraina». 

Lo scambio di prigionieri

La notizia dello scambio di prigionieri, rilanciata da Interfax sulla base delle dichiarazioni del ministro della Difesa russo, è essa stessa in qualche modo legata alla controffensiva ucraina, dato che i 103 prigionieri per i quali il Cremlino ha accettato lo scambio erano stati catturati – a detta del ministero stesso – nella regione russa di Kursk, dunque durante l’incursione svolta da Kiev in territorio russo lo scorso mese. I soldati liberati si trovano ora in Bielorussia. Lo scambio, come altri concordati in precedenza, è avvenuto tramite la mediazione degli Emirati Arabi Uniti.

Sul versante ucraino, quel che è certo è che Volodymyr Zelensky ha dichiarato che 49 prigionieri di guerra stavano tornando nel paese, mentre AFP scattava foto dell’arrivo del gruppo al confine con la Bielorussia. Il presidente non ha però detto esplicitamente che la liberazione del gruppo fosse frutto di uno scambio di prigionieri.

Le armi sul tavolo

Nel frattempo continua il braccio di ferro tra Zelensky e il Cremlino in tema di uso dei missili occidentali a lungo raggio, e su questo Mosca continua a lanciare minacce sia a Kiev che ai suoi alleati. Medvedev, noto per le sue dichiarazioni dai toni accesi, ha minacciato l’uso di armi nucleari, oppure classiche per un attacco su larga scala: «Al posto di Kiev resterebbe una grande macchia grigia», una città «fusa».

In tutto questo Kiev insiste che «servono decisioni forti: il terrore può essere fermato solo distruggendo gli arsenali militari dai quali si origina». Il Cremlino insiste che l’uso di armi Nato implica di per sé un coinvolgimento nella guerra, acuendo le sue pressioni nella fase in cui gli alleati occidentali di Kiev stanno valutando di avallare l’uso di missili a lungo raggio Storm Shadow per colpire più in profondità nel territorio russo.

Il dibattito tra alleati

Il presidente degli Stati Uniti prova a smorzare i toni. «Non passo la vita a pensare a Vladimir Putin» («I do not think much about Vladimir Putin»): così liquida la questione. L’incontro col premier laburista non ha portato alla ufficializzazione di una decisione di far usare quei missili, ma lo scenario resta sul tavolo. Le discussioni continueranno «in forma più ampia» – ha detto Starmer – durante la settimana di incontri negli Usa per l’assemblea generale Onu. «Questo incontro non è servito a prendere una decisione concreta». Nella loro dichiarazione congiunta Londra e Washington ribadiscono a ogni modo «l’incrollabile sostegno» all’Ucraina.

A fine agosto, al Consiglio Ue Affari esteri in cui l’alto rappresentante Ue Josep Borrell aveva sostenuto l’uso di missili a lungo raggio, Tajani aveva espresso il dissenso italiano. Oggi dichiara che «si deve lavorare per un tavolo per la pace ma la Russia non può arrivare con la soluzione della resa dell'Ucraina».

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