Pochi modelli elettrici, giù i profitti: il colosso tedesco dietro alle concorrenti nel suo principale mercato. In Germania i media hanno definito «drammatica» la situazione, mentre si combatte la guerra dei prezzi
Dalla Cina alla fine dell’anno per Volkswagen è in arrivo un’altra mazzata. Tramontato un dominio durato quarant’anni, il colosso di Wolfsburg, che nei primi dieci mesi del 2024 ha venduto 2,23 milioni di veicoli, a benzina ed elettrici (Ev), dovrà accontentarsi, così come nel 2023, del secondo gradino del podio dei produttori di automobili nella repubblica popolare. Su quello più alto rimarrà BYD, il parvenu di Shenzhen che nel periodo gennaio-ottobre ha consegnato 2,9 milioni di macchine, tutte Ev o ibride.
Già i dati del terzo trimestre avevano evidenziato per l’iconico brand tedesco – parte di un conglomerato di una dozzina aziende, tra cui Audi e Porsche, che dà lavoro a 684.000 persone nel mondo – una performance in Cina che i media in Germania non hanno esitato a definire “drammatica”.
Infatti il crollo dei profitti del gruppo nel periodo luglio-settembre (-60 per cento rispetto al 2023, da 5,8 a 2,4 miliardi di euro) nasce soprattutto dalla brusca frenata in Cina, il suo mercato numero uno, dove nei primi nove mesi del 2024 le vendite di Volkswagen sono calate del 12 per cento, contro il -1 per cento registrato in Europa occidentale.
L’esito della competizione – nel primo mercato globale dell’automotive – tra le centinaia di modelli di Ev cinesi e quelli, che finora si contano sulle dita di una mano, del brand teutonico, influenzerà il futuro dell’industria dell’automotive nell’Unione Europea (13 milioni di posti di lavoro compreso l’indotto, il 7 per cento del totale dell’occupazione), a causa delle dimensioni di Volkswagen.
Non è detto che la scommessa sulla Cina dell’amministratore delegato Oliver Blume sia già stata persa. Un fattore fondamentale sarà il tempo: quanto impiegherà una compagnia riconosciuta nel gigante asiatico come un simbolo di qualità a recuperare il ritardo nei confronti dei produttori locali, che da due anni stanno combattendo una feroce guerra dei prezzi. Volkswagen – a differenza di Tesla – ha scelto di non fare sconti, e ciò spiega in parte il crollo delle vendite.
Abbattere i costi
Forse un po’ esagerando, qualche giorno fa Herbert Diess ha sostenuto che «il mercato cinese è un disastro: a parte un produttore, lì nessuno fa profitti. La competizione è brutale. BYD è redditizio, ma non abbastanza, mentre gli altri stanno bruciando il loro capitale».
Nell’aprile scorso Vokswagen ha rilanciato la sua puntata su questo mercato “disastroso”, annunciando un investimento da 2,5 miliardi di euro per espandere il nuovo stabilimento e centro di ricerca di Hefei (nella provincia dello Anhui), dove progetta e produce i nuovi modelli con i quali spera di battere la concorrenza di BYD e di tante, agguerritissime startup.
La casa fondata nel 1937 nella Germania nazista sta rafforzando la sua supply chain, lavorando “in Cina per la Cina”, anche attraverso la partnership con XPeng, nonché con produttori locali di sistemi di navigazione, entertainment, guida assistita e altri campi nei quali i cinesi sono all’avanguardia. Per ora però le vendite continuano ad andare giù. Il gruppo punta a rendere disponibili in Cina 40 modelli nei prossimi tre anni e 30 Ev entro il 2030. Basteranno a colmare il gap con i produttori locali, che sfornano novità alla velocità della luce, in un paese in cui l’onda lunga del patriottismo di Xi Jinping incoraggia l’acquisto del made in China a scapito dei prodotti stranieri?
Non è un caso che Volkswagen, che ha annunciato la chiusura di almeno tre fabbriche e il licenziamento di circa 15 mila lavoratori in Germania, abbia fatto registrare investimenti record in Cina.
L’innovazione sperimentata in Cina promette infatti anzitutto l’abbattimento dei costi, attraverso un ricorso massiccio all’automazione e alla standardizzazione. Il problema è che – sottovalutando la rapidità e la profondità dei cambiamenti nel comportamento dei consumatori locali – Volkswagen ha iper investito in Cina, dove attualmente ha 39 impianti produttivi, compreso quello di Urumqi, finito nel mirino delle ong per le accuse di reclutamento di lavoro forzato tra gli uiguri musulmani del Xinjiang e, di fatto, inattivo.
Washington contro Berlino
Il settore dell’industria automobilistica è emblematico della strategia di Berlino, le cui maggiori corporation hanno aumentato la loro esposizione in Cina, incuranti delle politiche di “de-risking” promosse dall’esecutivo comunitario presieduto da Ursula von der Leyen. Una conferma di questa tendenza arriva da un rapporto di Rhodium Group, secondo il quale nel periodo aprile-giugno 2024 – trainati dai giganti tedeschi dell’auto – gli investimenti “greenfield” dell’Ue in Cina hanno raggiunto 3,6 miliardi di dollari, il livello più alto di sempre.
Inoltre, nel primo semestre 2024 è arrivato dalla Germania il 57 per cento del totale degli investimenti europei in quella Cina da cui i governi dell’Ue affermano di voler “ridurre le dipendenze”. La classifica parla chiaro, nelle prime cinque posizioni figurano nell’ordine: Volkswagen e BMW, il gigante della chimica BASF, davanti alla svedese Ingka Group (proprietaria di Ikea) e all’olandese STMicroelectronics.
Rhodium (think tank con sede a New York) giudica “sorprendente” il boom di investimenti europei, ricordando che «il contesto economico cinese sta diventando sempre più impegnativo per le aziende straniere. La fiducia tra le aziende europee in Cina è ai minimi storici in un quadro di crescenti preoccupazioni per la mancanza di riforme economiche, provvedimenti sempre più politicizzati e imprevedibili e una crescita vacillante».
Il manager maltrattato
Il mese scorso sono entrati in vigore i nuovi dazi sui veicoli elettrici (Ev) prodotti in Cina e importati nell’Ue, tariffe “compensative” (fino al 45,3 per cento) decretate dalla Commissione al termine di un’inchiesta anti-sussidi durata un anno. L’industria automobilistica tedesca si è fortemente opposta, con la presidente dell’associazione dei produttori dell’automotive (Vda), Hildegard Mueller, che le ha definite «un passo indietro per il libero commercio globale».
E la Commissione ha reso pubblici i documenti dai quali emerge l’accanita, ma fin qui inutile, resistenza dell’associazione dei carmaker tedeschi, secondo i quali «le quote di mercato delle società cinesi (il 7,6 per cento nel 2023, ndr) erano troppo piccole per causare un pericolo» per l’economia europea, mentre «la quota di mercato dei marchi cinesi non aumenterà in modo significativo nel prossimo futuro».
Se Berlino si è mossa a tutela dei suoi interessi nazionali votando – a differenza delle principali capitali europee – contro l’incremento delle tariffe sugli Ev made in China, secondo Rhodium «questi legami sempre più profondi possono avere una grande influenza sulla politica della Germania nei confronti della Cina. Ciò rischia di diventare una crescente fonte di tensione all’interno dell’Ue e tra Europa e Stati Uniti».
Nell’immediato il timore dei produttori tedeschi è che l’aumento dei dazi sugli Ev importati dalla Cina possa scatenare una risposta che danneggi gli investimenti di Volkswagen e le altre in Cina, che – sommata al calo delle vendite – potrebbe avere effetti devastanti, paragonabili al dieselgate, lo scandalo della manipolazione dei software di rilevamento delle emissioni scoperto nel 2015 e costato a VW multe per 31 miliardi di dollari.
Per giunta in una fase in cui il dominio delle tedesche potrebbe avere i giorni contati anche nel “segmento premium”. La Xiaomi “SU7”, sta già riscuotendo un enorme successo proponendosi come Porsche low cost (220miala yuan, circa 28mila euro).
Tramontata l’era in cui, con la “Santana” (detestata in Europa), Volkswagen vendette un abbordabile sogno di mobilità a milioni e milioni di cinesi, il nuovo zeitgeist cinese ci racconta di una Volkswagen che assurge agli onori della cronaca per il trattamento riservato al suo responsabile marketing, Jochen Sengpiehl, detenuto il mese scorso per dieci giorni perché trovato positivo alla cannabis e alla cocaina all’aeroporto di Pechino e rispedito in Germania.
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