Che cosa è stato, in Italia, il Partito comunista? Se i suoi modelli sono crollati, nel mondo, perché la memoria e i leader del Pci (Berlinguer, su tutti, ma anche Gramsci, Nilde Iotti, Ingrao, lo stesso Togliatti) continuano ad affascinare tanti italiani e rimangono tra i riferimenti ideali della sinistra? Forse perché il Pci, in fondo, non è mai riuscito a cambiare le cose, è rimasto quindi soltanto il sogno di quel che poteva essere il nostro paese – più giusto, più onesto? – e come ogni sogno non realizzato, mai raggiunto, ha il vantaggio di rimanere eternamente bello?

La risposta in realtà è un po’ più complessa; ma anche più interessante. Più utile, credo, anche per il dibattito che attraversano oggi il Pd e la sinistra (non solo italiana).

L’ultimo libro di Goffredo Bettini, Attraversamenti. Storie e incontri di un comunista e democratico italiano (PaperFirst, 2024), può essere la mappa per comporla. Coloro che vantano un ruolo significativo sia nella storia nazionale del Pci sia nelle formazioni sue eredi si contano sulle dita di una mano. Nel vissuto di Bettini ritroviamo le grandi battaglie ideali, sociali e culturali degli anni Settanta e Ottanta, i tormenti della svolta, quando il Pci cambia nome (e che coincidono non a caso con una profonda crisi personale), e poi la sfida di amministrare e incidere profondamente nella realtà, cambiandola in meglio, a partire dalle giunte Rutelli a Roma, fino alla nascita del Partito democratico e agli ultimi anni.

E in questo percorso troviamo anche la capacità di intessere relazioni e amicizie con alcuni dei più grandi nomi della cultura italiana a livello mondiale, negli ambiti più diversi (Pier Paolo Pasolini, Renzo Piano, Luciano Berio), lottando al contempo per l’emancipazione degli oppressi, dalla classe operaia (nelle pagine dedicate a Pietro Ingrao, ma anche a Mario Tronti) a ogni nuova soggettività portatrice di diritti, le donne e le persone Lgbtq+ (nel ricordo di Franca Chiaromonte) o persino agli internati degli ospedali psichiatrici (è l’immagine che apre il libro, con l’iniziativa politica di Gianni Borgna).

Una comunità

Che cos’era, dunque, questo Pci? Tre cose. Innanzitutto, una comunità di donne e di uomini che, in nome di un ideale, dava senso alla vita di coloro che vi partecipavano (era forse proprio il richiamo a quella parola così diversa, «comunista», che lo favoriva).

Questo però di per sé non è né bene né male, e anzi, più spesso, nella storia è foriero di sventura: indice di fanatismo. Il punto – per fortuna – è che poi nel concreto l’ideale non era tanto il modello comunista, di cui per la verità da Berlinguer in poi restava poco più che l’alterità di un nome che prometteva una società diversa, solidale. Né era soltanto un’illusione irraggiungibile.

La vicenda del Partito comunista italiano era in questo originale: una tensione quotidiana, una lotta costante per allargare gli spazi di democrazia, di libertà, di diritti nella società italiana. E con questi ingredienti – passione, ideali e impegno – il Pci è stato anche una scuola di amministrazioni e dirigenti onesti, generosi, capaci, che non di rado hanno saputo governare molto bene le città, le regioni e l’Italia (non sempre: ma spesso hanno fallito proprio quando si sono allontanati da tale impostazione).

Almeno le prime due caratteristiche del Pci erano chiare a Pier Paolo Pasolini, quando nel giugno 1975, pochi mesi prima di venire assassinato, dichiarava: «Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita: riescano cioè a trasformare, come vuole la loro tradizione razionale e scientifica, lo Sviluppo in Progresso».

Trasformazione

Ma che cosa vuol dire trasformare lo sviluppo in progresso? Nel libro ritroviamo il concetto più avanti, nelle pagine dedicate al leader della destra romana Andrea Augello, ai cui funerali, nel 2023, Bettini assieme a Giorgia Meloni è chiamato a svolgere l’orazione funebre. Fra loro vi era un terreno comune, ricorda l’autore: «La diffidenza verso un’idea illimitata della potenza della tecnica e di un progresso ininterrotto, dentro una storia tutto sommato inevitabilmente finalizzata al meglio».

Per i conservatori, aggiunge, questa diffidenza spinge a guardare prevalentemente al passato. E per i progressisti? Dovrebbe spingere ad ancorare la potenza della tecnica agli ideali della solidarietà umana, come nella Ginestra di Leopardi, cioè a orientarla e guidarla nella filosofia dei diritti dell’uomo: i diritti che nell’estendersi pongono anche doveri e che sono, per natura, un argine al potere (politico, in origine; ma ora anche economico, tecnologico); è l’idea del limite, che nasce con il pensiero liberale, in ben altri contesti, e diventa, nel mondo di oggi, motivo dell’incontro con il pensiero socialista ed ecologista.

Il tema è tanto più cruciale quanto più aumenta la potenza della tecnica (cioè il potere dell’uomo). E infatti si impone all’attenzione del pensiero occidentale a partire almeno dalla Prima guerra mondiale e, ancora di più, con la Seconda; e oggi, naturalmente, con il pericolo della catastrofe ecologica, o della Terza guerra mondiale.

Ma non si può certo volgere lo sguardo indietro, a un mondo ingiusto che non esiste più: occorre accettare la sfida dello sviluppo tecnologico, con tutte le straordinarie opportunità di emancipazione, di liberazione che reca con sé.

Proprio per orientarlo e guidarlo. Come il Pci ha effettivamente provato a fare, pur fra i turbinii e i rivolgimenti nelle correnti della storia, in Italia.

Se questo è il nocciolo, quel che in fondo rimane attuale, dell’esperienza storica del Pci, allora è condiviso anche da chi – come chi scrive – non appartiene a quella storia, ma piuttosto al campo del socialismo democratico e liberale: cioè a quei socialisti che sin dall’inizio hanno rifiutato il legame con i regimi comunisti, proprio in nome dei diritti umani (che cominciano dal pieno esercizio delle libertà civili e politiche), ricercando invece la realizzazione degli ideali di progressiva emancipazione e solidarietà umana nella cornice, pure imperfetta e per nulla facile, della democrazia liberale.

La via italiana

Direi anzi che è la storia del Pci che finisce per ricongiungersi, alla fine, con quella del socialismo democratico (e dell’ecologismo): non per un accidente, o per sua bancarotta, ma per radici che a ben vedere erano già state poste dalle riflessioni di Gramsci e poi dalla «via italiana al socialismo» di Togliatti.

Ma a dire il vero questo dovrebbe essere oggi l’orizzonte ideale di tutti i partiti progressisti nel mondo: governare l’economia e lo sviluppo tecnologico per ancorarli ai diritti umani, alla solidarietà, alla tutela degli ecosistemi e del «vivente non umano». È la via del socialismo democratico e liberale, come pure del liberalismo progressista, dell’ecologismo come umanesimo: ed è un’aspirazione che deve passare, beninteso, anche per la trasformazione del capitalismo o, meglio, per un governo politico-democratico dell’economia; in nome di diritti e motivi etici che sono superiori alla dimensione economica (sono il fine, l’economia è un mezzo).

Quest’orizzonte condiviso non è un dettaglio, nella buona politica. Ne è anzi il sostrato fondamentale, la premessa per poter avere una classe dirigente che non sia solo capace, ma anche orientata a (quel che considera) il bene comune.

La destra di Meloni, in fondo, un ideale condiviso ce l’ha, quello conservatore di cui si è detto. E ce l’aveva il Pci; anche grazie a esso è riuscito a promuovere una classe di amministratori e dirigenti di buon livello, come ricordato. Peraltro, la chiarezza e la condivisione ideale consentono di mantenere viva la fiaccola dell’amicizia, una virtù che sembra chimerica nella politica attuale, ma che il libro di Bettini ci ricorda quanto sia vitale; e possibile. La buona politica non è solo calcolo e convenienze.

Ma passione e comunità, sorrette dagli ideali. Forse, la storia del Pci all’Italia e alla sinistra di oggi può insegnare soprattutto questo.

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