Ci sono due aforismi che possiamo inventarci per introdurre questo articolo (e che ci torneranno utili più tardi). Primo aforisma: prova a porre a un nerd una qualsiasi domanda sulla tecnologia – ma di quelle che ti aspetteresti una risposta secca, tipo un “sì” o un “no” – e lui ti risponderà sempre con un «è complicato».

Secondo aforisma: se non vuoi più essere spiato, dovrai rinunciare a vivere in questo mondo, chiuderti in una grotta come un eremita, senza usare la tecnologia. Perché ogni oggetto che si connette alla rete comunque condivide dati su di te (e questo, ovviamente, è un grosso problema per la nostra privacy, a prescindere da qualsiasi altra considerazione).

La domanda a cui rispondere è questa: è capitato di parlare con un parente, un collega o un amico di un qualsiasi argomento – di un posto dove si vorrebbe andare in vacanza, di uno sfizio che ci si vorrebbe prendere, di un prodotto che si vorrebbe provare – e di essere poi bersagliati, online, da pubblicità esattamente sullo stesso argomento.

Significa dunque che gli smartphone ci spiano? O lo fanno le televisioni? O gli assistenti vocali? Ci sono microfoni che raccolgono le nostre conversazioni, per poi proporci pubblicità mirate? La risposta – lo avrete capito – «è complicata».

Come funziona la pubblicità online

Prima di tutto bisogna comunque capire come funziona la pubblicità online e da questo punto di vista non ci sono dubbi che la chiave sia sempre e comunque la “personalizzazione”. Tutti i prodotti digitali – compreso il giornale dove state leggendo questo articolo – hanno contenuti pubblicitari che sono studiati su di voi.

In genere, gran parte degli annunci possono essere inclusi nella sigla “Oba”, ovvero “Online Behavioural Advertising”, letteralmente: “Pubblicità comportamentale online”. È una tecnica di marketing che parte dalla raccolta dei dati sul comportamento degli utenti online, con l’obiettivo di mostrare appunto gli annunci personalizzati sulla base delle nostre abitudini.

Semplificando un poco, Internet è come un’enorme spiaggia, in cui ognuno di noi lascia delle orme, che poi gli algoritmi riescono a interpretare, incrociare e tradurre in un identikit che ci accompagna in tutta la nostra vita digitale.

Sangue, ossa e dati

Tutto questo è in genere abbastanza noto a tutti. E si sperimenta semplicemente cercando qualcosa online. Ma ciò che fa la differenza per il marketing digitale è la capacità di incrociare dati di provenienza diversa. L’evoluzione tecnologica in un certo senso facilita questo processo di “raccolta” e “interpretazione”.

A definirci non c’è infatti solo quello che cerchiamo su Google o su Amazon. Ogni oggetto che normalmente identifichiamo con il prefisso “smart” – lo smartphone, lo smartwatch, le smart tv, gli smart speaker e le nostre case… smart – possono connettersi alla rete. E, per definizione, contribuiscono alla nostra schedatura.

In altre parole, in quanto abitanti del mondo digitale contemporaneo, siamo sempre più fatti di sangue, ossa e dati. E – come dicevamo con il secondo aforisma – solo vivendo fuori dal tempo potremmo evitarlo.

La nostra impronta

Ogni oggetto ha però modi diversi per schedarci, in maniera difficilmente decifrabile: e proprio questa mancanza di trasparenza è il terreno più fertile per teorie alternative, come appunto quella di immaginare che ognuno di noi sia intercettato da microfoni spia.

È quello che prima abbiamo chiamato “orma nella sabbia” e che in effetti viene chiamato in gergo come “fingerprinting”, “impronta digitale”. Composta dal luogo dove ci troviamo (attraverso la localizzazione gps, l’indirizzo ip o il wifi al quale ci connettiamo), la storia dei siti che visitiamo, di ciò che cerchiamo online, la storia di quello che compriamo e del modo in cui utilizziamo le app. Il modo in cui utilizziamo fisicamente i nostri device. Quello che leggiamo. Il tempo che passiamo su un punto qualsiasi di un qualsiasi sito, quando ci sembra semplicemente di navigare “a caso” (e invece stiamo lasciando altre impronte).

C’è la storia di quello che abbiamo guardato, talvolta del cibo che abbiamo mangiato, della musica che abbiamo ascoltato e dell’attività fisica che abbiamo svolto. Ma c’è soprattutto la storia delle nostre relazioni e delle persone con cui siamo abituati a condividere l’abitazione o il luogo di lavoro (e spesso anche il wi-fi). È abbastanza comune ricevere suggerimenti di un regalo, quando chi amiamo sta per compiere gli anni.

Ascoltarci non serve

In altre parole, significa che se non abbiamo cercato noi qualcosa online, potrebbe averlo già fatto il nostro partner, la nostra collega o il nostro coinquilino. Guarda caso, spesso è la stessa persona con la quale conversiamo di qualcosa. Le pubblicità che poi ci appaiono possono derivare anche da questa nostra vicinanza, ricostruita rispetto alla condivisione di luoghi e abitudini.

Ed è così che nasce la magia (o la stregoneria, dipende dai punti di vista): dall’incrocio di dati che ci descrivono e che ci rendono tristemente prevedibili. Manco a dirlo, tutto questo avviene ovviamente grazie all’intelligenza artificiale, che incasella le nostre abitudini, il nostro tenore sociale e culturale, la nostra capacità di spesa e pure i desideri che ancora non conosciamo. Tutto questo riferito ovviamente non tanto a “persone fisiche”, ma a device, utenti e potenziali clienti, incardinati in specifici settori di marketing a cui gli annunci si riferiscono.

Per conoscerci e costruire la pubblicità migliore per i nostri desideri nessuno ha bisogno di ascoltare le nostre conversazioni.

Traditi da noi stessi

Come spesso accade, ogni fenomeno può essere poi influenzato da una serie di bias psicologici, che concorrono a convincerci di ciò che in realtà non accade davvero. Succede per esempio perché tendiamo a notare due eventi che accadono a poca distanza nel tempo, convincendoci che esista un nesso di casualità fra loro, anche se non sono davvero in relazione.

Anche perché ricordiamo meglio i fatti più recenti: magari avevamo già incrociato una pubblicità in passato, ma ce ne siamo dimenticati, e ritrovarla ora – dopo che abbiamo parlato di un determinato prodotto – ci convince di essere spiati. Soprattutto se accade il contrario: se interiorizziamo una pubblicità senza rendercene conto, poi ne parliamo con qualcun altro e poi la ritroviamo un’altra volta.

O, ancora, c’è “l’illusione di conferma”, attraverso la quale cerchiamo semplicemente una conferma a ciò che già riteniamo vero, selezionando gli eventi e le informazioni che abbiamo a disposizione. Se poi non si conoscono i processi che stanno alla base della “pubblicità mirata” è più facile cercare spiegazioni alternative, che talvolta finiscono nel terreno del complottismo.

Esperimenti

Eppure tutto questo probabilmente non toglie i dubbi che si basano talvolta su esperienze personali effettivamente inquietanti. Online si possono trovare diversi esperimenti di chi assicura di aver dimostrato una teoria (o esattamente il contrario).

Alcuni ricercatori di NordVpn – una delle più importanti aziende che offrono un servizio di navigazione privata e anonima – hanno fatto un esperimento. Si sono chiusi in stanze separate e hanno iniziato a pronunciare alcune “parole chiave”, compreso il marchio di un’automobile. Uno di loro ha effettivamente iniziato a ricevere pubblicità mirata su quello specifico marchio, anche se non l’aveva mai cercato prima e nemmeno possiede un’auto.

C’è poi una notizia che ha avuto una certa visibilità qualche mese fa, anche perché sembrava la conferma di tutti i sospetti.

Cmg

Nasce tutto dalle rivelazioni di 404, una testata digitale fondata da alcuni giornalisti e specializzata proprio in tecnologia. Consultando un report dell’agenzia pubblicitaria di Cmg, il Cox media group (un importante conglomerato mediatico statunitense), si è accorta che fra i servizi promossi ce n’era uno chiamato “active listening”.

Prometteva di sfruttare l’intelligenza artificiale per decifrare le conversazioni captate dagli smartphone, in un certo senso confermando per la prima volta che questa possibilità non solo esiste, ma viene tranquillamente pubblicizzata da un’agenzia di marketing.

In realtà, il report di Cmg sembra molto poco concreto, è stato eliminato dopo il clamore mediatico e ha costretto il gruppo a fare qualche passo indietro. In particolare, secondo il sito Search Engine Land, Cmg ha chiarito di non ascoltare direttamente le conversazioni degli utenti, ma di utilizzare dati raccolti e anonimizzati da altri.

Inoltre, anche in questo caso – come già altre volte – grosse aziende come Apple, Google e Amazon hanno negato che le intercettazioni possano essere fatte utilizzando i loro dispositivi.

Wake word

E in effetti negli ultimi tempi gran parte dello sviluppo dei sistemi operativi di Apple e Google sono andati nella direzione di una maggiore trasparenza e rispetto della privacy. Quando un’applicazione utilizza il microfono, viene mostrato in maniera chiara sul display.

Gli assistenti vocali sono in un certo senso sempre all’ascolto, ma sono costruiti per riconoscere solo la cosiddetta “wake word” (la “parola di attivazione”). Solo dopo particolari espressioni – come “Ehi Siri”, “Ok Google” o “Alexa” – iniziano a decifrare il resto dei comandi.

Certo, rimane la possibilità che qualche applicazione riesca a utilizzare il microfono in maniera fraudolenta, superando anche i controlli – molto severi – dei sistemi operativi.

Il sospetto

La verità è che a fronte di sospetti sempre più diffusi, nessuno è mai riuscito a dimostrare per certo che questo avvenga. In uno studio accademico del 2019, si sostiene – sulla base puramente teorica – che in effetti non lo si possa nemmeno escludere del tutto a priori.

«Anche se alcuni scenari (come il trasferimento costante di registrazioni audio non compresse nel cloud) possono essere esclusi sulla base delle misure di sicurezza esistenti e sulla base di considerazioni che riguardano la visibilità, i costi e la fattibilità tecnica di certi sospetti, ci sono ancora molte vulnerabilità di sicurezza e una mancanza fondamentale di trasparenza che potrebbero lasciare spazio a intercettazioni più sofisticate che potrebbero avere successo e rimanere non rilevate».

Questo è ancora più vero per dispositivi meno comuni, come giocattoli o sistemi d’allarme intelligente, smart tv o baby monitor, «che potrebbero avere misure di protezione della privacy più deboli rispetto agli smartphone».

Tracciati

Anche lo studio del 2019 concorda però sul fatto che queste intercettazioni non sono indispensabili per avere pubblicità mirate di una precisione inquietante. Ci sono già un’enormità di fonti diverse, che sono perfettamente legali, anche se molte volte gli utenti accettano di cedere i propri dati senza esserne consapevoli.

«Anche se non fossero davvero utilizzati per intercettare le conversazioni», sostengono i ricercatori, «gli smartphone permettono già a una vasta gamma di attori di tracciare i privati cittadini in modo molto più efficiente e dettagliato di quanto sarebbe stato possibile anche nei regimi più repressivi e negli stati di polizia del XX secolo».

Al di là di qualsiasi suggestione che al momento non può essere provata, il punto è proprio questo: quale grado di “tracciabilità” e profilazione «dovrebbe essere considerato accettabile per scopi commerciali come la pubblicità mirata?». E cosa ognuno di noi è ancora disposto ad accettare?

Cosa si può fare

La domanda è in un certo senso politica, risente delle varie regolamentazioni ed è vero che c’è stato qualche passo in avanti, rispetto al 2019. Dal punto di vista invece puramente tecnico, esistono dei modi per proteggere il più possibile la propria privacy e quindi avere un controllo maggiore sui dati (sempre considerando il “secondo aforisma” che abbiamo utilizzato per introdurre questo articolo).

Fra le altre cose, non accettare l’utilizzo di cookie non necessari, o utilizzare dei plugin che blocchino i tracciamenti. Navigare in modalità incognita o utilizzare software (come vpn o anti-tracking) che aiutino nella protezione della privacy. Verificare le preferenze di pubblicità di Google e Facebook, ma anche le autorizzazioni date alle singole applicazioni.

Ma quello che fa davvero la differenza è, ancora una volta, la cultura. Sapere come funziona la tecnologia. Non lasciare sempre e solo agli altri il potere di controllare la nostra vita.

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