Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


L’episodio dell’incontro alla Caserma Carini, del 25 giugno ‘92, introduce al secondo profilo di rilevanza, stavolta in un’ottica squisitamente difensiva, dell’indagine su mafia e appalti.

La tesi della difesa è che, se vi fu un’effettiva accelerazione nel dare concreta attuazione alla decisione già adottata da tempo di uccidere il dott. Borsellino, essa fu dovuta ad un coacervo di cause concomitanti che nulla hanno a che vedere con la presunta trattativa Stato-mafia; e su tutte e prima di tutte, risalterebbe il rinnovato interesse del magistrato per l’indagine mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire tale indagine, che mirava a uno dei gangli vitali del potere mafioso. Da qui la preoccupazione dei vertici mafiosi di stroncare sul nascere qualsiasi velleità di sviluppare questo filone d’indagine, eliminando il dott. Borsellino prima ancora che potesse mettere in atto il suo proposito.

La sentenza appellata reputa provato sia l’interesse che il proposito predetti, richiamando al riguardo le convergenti dichiarazioni di una serie nutrita di fonti testimoniali (cfr. Canale, Natoli, Vizzini, Aliquò, Ferraro) in aggiunta e a riscontro di quanto dichiarato da Mori e De Donno in ordine alle intenzioni e intuizioni loro esternate dal dott. Borsellino in occasione dell’incontro del 25 giugno ‘92. E tuttavia esclude, per molteplici ragioni (cfr. pagg. 1234-1236), che possano avere avuto una concreta incidenza nell’accelerazione dell’iter esecutivo della strage (così andando, va detto, in contrario avviso rispetto ai più recenti arresti giurisprudenziali sul tema, come risulta dalle sentenze di merito del processo “Borsellino quater”, ed anche rispetto alla sentenza, divenuta irrevocabile, n. 24/2006 della Corte d’Assise d’Appello di Catania, che ha definito quale giudice di

rinvio i procedimenti riuniti aventi ad oggetto le due stragi siciliane); come pure esclude (cfr. pag. 1237) la possibile incidenza degli avvenimenti e delle circostanze che decine di giudici nei vari processi istruiti e definiti sulle due stragi siciliane hanno di volta in volta ipotizzato come possibili cause o concause di quell’accelerazione (quali la collaborazione di nuovi pentiti di rilevante spessore, come Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, che il dott. Borsellino aveva iniziato ad interrogare il 1° luglio ‘92, e altri pentiti proveniente da[l’agrigentino; nonché le incaute esternazioni risalenti all’ultima decade di giugno ‘92 dei ministri Scotti e Martelli circa una possibile designazione a procuratore Nazionale Antimafia del dott. Borsellino, quale naturale erede del giudice Falcone nel ruolo di leader dell’attività di contrasto alla mafia). E perviene infine alla conclusione che «è giocoforza ritenere che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo — ed in sostanza di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci — pervenuti a Salvatore Rima, attraverso Vito Ciancimino proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio».

Quei segnali sarebbero quindi l’unico fatto nuovo, sopravvenuto dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio che può avere indotto Riina a «sconvolgere la “scaletta” del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento. all’apparenza, sarebbe stato totalmente controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa se non altro per l’effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere garantista”, interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al ‘giro di vite” che il Governo si apprestava ad attuare nell’azione di contrasto alle mafie».

L’interesse di Borsellino

Ebbene, va detto subito che gli argomenti che inducono il giudice di prime cure ad escludere che l’interesse del dott. Borsellino per l’indagine mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire quel tema d’indagine abbiano avuto concreta incidenza nell’accelerazione della strage di via D’Amelio (nella sua fase esecutiva) appaiono tutt’altro che irresistibili e convincenti.

Vero è che nel periodo in considerazione si occupava anche - persino di più - di altre indagini, nella sua qualità di coordinatore dei magistrati titolari delle inchieste sulle consorterie mafiose operanti nelle province di Trapani e Agrigento. Ma è chiaro che, in un’ottica di tutela preventiva degli interessi mafiosi, le indagini in corso, o quelle che il dott. Borsellino si accingeva ad intraprendere, non avevano tutte lo stesso peso. C’è indagine e indagine: bisogna vedere quale, delle tante di cui egli si stava occupando, poteva destare maggiore allarme in Cosa nostra, per la sua valenza strategica e i possibili sviluppi. E la medesima considerazione vale per l’obbiezione che segue immediatamente alla prima.

Vero è che L’innegabile interesse per l’indagine mafia e appalti e i lungimiranti propositi di Borsellino di riprendere quel filone investigativo e approfondirlo — magari proprio avvalendosi degli input che potevano venirgli dai nuovi pentiti di cui aveva iniziato a raccogliere le prime dichiarazioni — non si erano concretizzato ancora in specifici atti istruttori e neppure in una delega d’indagine che potesse concretamente impensierire i vertici dell’organizzazione mafiosa.

Ma anche sotto questo aspetto è agevole replicare che, sempre in un’ottica di tutela preventiva, se Cosa nostra aveva motivo di temere conseguenze gravemente pregiudizievoli per i propri interessi da un’eventuale approfondimento dell’indagine mafia e appalti che conducesse ben oltre gli approdi del procedimento a carico di Siino e gli altri 5 tra sodali e imprenditori collusi che erano stati arrestati e poi rinviati a giudizio per il reato di associazione mafiosa (essendo previsto per ottobre l’inizio del dibattimento), allora aveva altresì interesse a prevenire quel rischio: e quindi a stroncare sul nascere la possibilità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, attraverso l’annientamento del magistrato che forse più di ogni altro in quel momento avrebbe saputo mettere un patrimonio inestimabile di conoscenze e acquisizioni e capacità di analisi del fenomeno mafioso al servizio di un’indagine tesa a sviluppare un’intuizione che il dott. Borsellino aveva mutuato dal giudice Falcone, a proposito della sua probabile evoluzione nel senso di una progressiva penetrazione nei circuiti dell’economia legale, e negli ambienti dell’alta finanza e della grande impresa.

Un’evoluzione che, a partire dall’esigenza di riciclare e fare fruttare gli ingenti capitali provento dei traffici illeciti, e accumulati fin dalla seconda metà degli anni ‘70, aveva marciato lungo traiettorie che, nella prospettiva di una valenza non più soltanto predatoria o parassitaria dell’ingerenza di Cosa nostra nel sistema di illecita spartizione e gestione degli appalti, andavano ad incrociare le indagini sulle vicende di corruzione e concussione che ormai in tutto il Paese, al seguito dell’inchiesta Mani Pulite, investivano pezzi importanti della nomenclatura politica fino ad allora dominante, e non risparmiavano i più grossi gruppi imprenditoriali interessati ad aggiudicarsi lucrosi appalti anche in Sicilia.

Pertanto, cade anche l’ulteriore obbiezione del giudice di prime cure secondo cui, tutto sommato, l’indagine mafia e appalti già curata dal Ros si era sostanzialmente conclusa, senza andare molto oltre gli esiti compendiati nella prima Informativa del febbraio 1991. Essa non aveva sortito un gran danno per Cosa nostra, a parte il sacrificio di Siino, che aveva fatto velo all’ascesa di altri personaggi (come i fratelli Buscemi o l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone), rimasti ai margini di quell’indagine, e chiamati invece a ricoprire ruoli anche più importanti rispetto a Siino, nel fare da tramite tra l’organizzazione mafiosa, i rappresentanti dei più grossi gruppi imprenditoriali associati alle cordate di imprenditori locali negli accordi di spartizione degli appalti e i politici o gli amministratori che li propiziavano dietro versamento di congrue tangenti.

Saranno proprio le indagini e i processi del filone mafia e appalti che seguiranno negli anni successivi a svelarlo, come si evince dalla mole di documenti qui acquisiti.

Ma in quella primavera-estate del ‘92, era uno scenario ancora latente. E quindi non vale obbiettare che il rapporto mafia e appalti del capitano De Donno aveva sortito magri risultati sul piano giudiziario e non poteva rappresentare un pericolo per Cosa nostra; o che tra i politici e imprenditori che erano stati solo lambiti da quell’indagine - e che ovviamente non avrebbero gradito un suo approfondimento - non vi fossero personaggi talmente compenetrati agli interessi (strategici) di Cosa nostra da poter sollecitare l’organizzazione mafiosa a prendere i provvedimenti più opportuni per scongiurarne il rischio.

Sono obbiezioni che ancora una volta sottostimano le esigenze di tutela preventiva per gli stessi interessi mafiosi contro i rischi di un’indagine che andasse ad aggredire gangli strategici del potere mafioso, quali le sue fonti di arricchimento (e di fruttuoso reimpiego degli ingenti capitali accumulati) e i suoi crescenti e sempre più pervasivi collegamenti con ambienti qualificati del mondo politico e imprenditoriali, perseguiti e realizzati proprio attraverso l’inedito protagonismo di Cosa nostra nel settore degli appalti che apriva canali e opportunità formidabili per implementare quei collegamenti.

Sempre in un’ottica di tutela preventiva, ciò che poteva temere Cosa nostra era ben altro dal rischio che qualche politico “amico” o qualche imprenditore rampante e più o meno colluso restasse invischiato nelle maglie di un’inchiesta come quella sfociata nell’arresto di Angelo Siino e pochi altri suoi sodali.

Il vero pericolo era che un approfondimento di quel tema d’indagine, sotto la sapiente regia e la determinazione di un magistrato esperto qual certamente era il procuratore aggiunto di Palermo unanimemente additato come erede di Giovanni Falcone, e nel solco di un’intuizione che era stata dello stesso Falcone, portasse alla luce o squarciasse il velo di silenzio che avvolgeva gli scenari davvero inquietanti di cui ha parlato, anche nella deposizione resa dinanzi a questa Corte, come già aveva fatto nel “BorsellinoTer”, il senatore Di Pietro (v. infra). Ma di cui v’è cospicua traccia, oltre che nelle sentenze di merito dello stesso “BorsellinoTer” (e in quella emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel processo “BorsellinoQuater”), in diversi altri documenti come i due decreti (e relative richieste) di archiviazione dei procedimenti istruiti dalla Ddda nissena a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, la richiesta di archiviazione del procedimento De Eccher+20, e la citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti a firma dei magistrati titolari dei primi procedimenti istruite su questo tema d’indagine dalla procura di Palermo, e sui successivi sviluppi.

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