Non c’è dubbio che la vittoria di Trump sarebbe un disastro per l’ambiente, fra negazionismo e scelte dirompenti. Ma l’alternativa democratica rischia di lasciare tutto com’è, senza fare i passi avanti che invece servirebbero
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Non è nei piani degli Stati Uniti guidare una reale transizione ecologica, né guardando a destra né guardando a sinistra. Anche perché per i repubblicani, il cambiamento climatico neppure esiste. E se esiste è causato deliberatamente dai democratici.
Secondo la deputata trumpiana Marjorie Taylor Greene gli uragani Helene e Milton ne sono una prova concreta, non per niente hanno colpito zone abitate per lo più da elettori repubblicani: sarebbero stati Joe Biden, Kamala Harris e più in generale il Partito Democratico a generarli grazie a dei raggi laser sparati dallo spazio (altri propongono la tecnica del cloud seeding). Entrambe le tecnologie esistono, nessuna delle due sarebbe nemmeno lontanamente in grado di generare un uragano.
La politica sul clima dei repubblicani consiste insomma in un negazionismo assoluto. Se poi la crisi dovesse inasprirsi ulteriormente nei prossimi anni, resta la fiducia altrettanto assoluta nella geo-ingegneria, a partire dai sistemi per la cattura e stoccaggio di anidride carbonica che hanno il difetto di consumare moltissimo ed essere al momento ben poco efficaci. Scommettere su una soluzione così poco concreta è di per sé rischiosissimo ma permette di portare avanti ora una retorica negazionista o “ritardista”.
Secondo Ethan N. Elkind, direttore del Climate Program Center for Law, Energy and Environment di Berkeley, «se Trump vincesse, potrebbe compromettere del tutto l’azione degli Stati Uniti in materia di clima, in primo luogo revocando le normative volte a ridurre le emissioni di gas serra, ma anche impedendo alla California di fissare come vorrebbe obiettivi ambiziosi per i veicoli elettrici. Uno Stato infatti può superare gli standard federali solo se autorizzato dall’Epa statunitense, che il presidente controlla».
Nel concreto, per Elkind, Trump potrebbe annullare i crediti d’imposta per diverse tecnologie pulite, tra cui batterie, veicoli elettrici ed energie rinnovabili e accelerare invece le autorizzazioni per nuove estrazioni di combustibili fossili. Anche la spesa per i trasporti potrebbe spostarsi nuovamente su autostrade e automotive, abbandonando i piccoli passi in avanti fatti sulla mobilità dolce negli ultimi anni.
Il disastro di Trump
Come riportato da Politico, a giugno Trump ha annunciato il ritiro dagli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi in caso di vittoria. Lo aveva già fatto nel suo primo mandato, ora andrebbe oltre. Si parla anche di uscita dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), che serve da riferimento per i colloqui globali sul clima, o addirittura dal trattato ONU del 1992.
In un momento in cui in Europa i partiti ecologisti sono in forte calo, sia nei singoli stati sia nel parlamento europeo, un passo indietro così netto da parte degli Stati Uniti potrebbe avere effetti devastanti sulle politiche di transizione di tutto il mondo.
«Già ora l’impatto climatico degli Stati Uniti è altissimo e la traiettoria globale marcia verso i +2,7°C entro il 2100: un’ulteriore marcia indietro di Trump potrebbe avere effetti disastrosi» osserva Federico Fabiano, fisico e climatologo del Cnr.
Per Mike Bonanno, attivista e professore associato del Rensselaer Polytechnic Institute di New York «se ci fidiamo delle sue promesse di aprire le terre protette alle trivellazioni, eliminare qualsiasi norma ambientale e sventrare l’Epa, la presidenza di Trump potrebbe rappresentare un’accelerazione irreversibile di un disastro catastrofico per il pianeta».
Una vera alternativa?
È per questo che gruppi di attivisti per il clima come Sunrise Movement e Climate Defiance hanno dato pubblicamente il loro sostegno a Kamala Harris, nonostante tutto.
Ma nemmeno dal lato democratico sembra esserci la spinta per una reale transizione, quanto piuttosto per una guerra produttiva e commerciale con la Cina. Nei piani di Harris di nuova energia verde ce ne sarà eccome, ma andrà ad aggiungersi a quella fossile, anziché a sostituirsi.
Auto elettriche
Come racconta Emanuele Leonardi, sociologo dell’Università di Bologna, la politica climatica dei democratici segue due linee “contraddittorie ma unite”, ed entrambe poggiano sullo scenario geopolitico di guerra in Ucraina e Medio Oriente.
«Da una parte, in questo contesto per gli Usa diventa impossibile gestire la crisi climatica a livello globale attraverso l’Onu e la transizione si trasforma in un affare strettamente domestico, focalizzandosi sull’auto elettrica», spiega Leonardi.
Recentemente Shawn Fain, sindacalista di United Automobile Workers, ha partecipato a diversi dibattiti democratici, mostrando il pieno sostegno dei sindacati del settore automobilistico, oltre che delle stesse aziende.
«Si tratta di una lettura della sfida climatica assunta a vettore di reindustrializzazione in chiave protezionistica e di attiva competizione economica, in particolare con la Cina», osserva ancora Leonardi.
L’elettrico, se vincesse Harris, continuerebbe infatti a essere finanziato attraverso sussidi pubblici come previsto dall’Inflation Reduction Act di Biden, in modo da supportare il più possibile l’acquisto di nuove auto all’interno del paese. Al contrario, Trump lascerebbe la vendita di auto elettriche circoscritta a beni di lusso come nel caso di Tesla.
La svolta
La seconda linea di Harris sembra andare in direzione opposta. Recentemente la vicepresidente ha dichiarato che il suo mandato vedrà l’estrazione fossile maggiore della storia.
Questa svolta si spiega in parte con la speranza di molti sostenitori che si tratti di una strategia per cercare di portare dalla propria parte gli indecisi di stati particolarmente sensibili al tema (e decisivi per le elezioni) come la Pennsylvania.
Insomma, tranquillizzare la lobby fossile, dando per scontato che i voti del campo ambientalista confluiranno attivamente sui democratici. D’altro canto, come osserva Leonardi, si può invece leggere questa scelta di nuovo in chiave protezionistica: in tempi di guerra è necessario essere indipendenti non potendocisi fidare di altri produttori.
E la continuità
Nel bene e nel male, Harris si comporterà da erede di Biden, portando avanti le stesse politiche e mantenendosi sullo stesso binario. Per Ethan Elkind, Harris «potrebbe contribuire a sviluppare ulteriormente regolamenti più severi per le emissioni di automobili e centrali elettriche, sviluppare maggiori incentivi fiscali per le tecnologie pulite e approvare le normative della California, che si sta ponendo come leader a livello nazionale» e potrebbe trainare altri stati.
Inoltre, sottolinea Irene Delfanti, attivista e collaboratrice del Center for World Indigenous Studies, garantirebbe la prosecuzione del piano di co-governance (Co-Stewardship) ratificato da Biden nel 2023 che puntava ad aumentare il coinvolgimento dei popoli indigeni nei processi decisionali relativi alle loro terre: con Trump quasi certamente anche questo sottilissimo passo avanti in termini di diritti e restituzione di potere ai popoli indigeni, verrebbe annullato.
Le alternative
Insomma, con Trump si andrebbe dritti verso un disastro climatico, ma nemmeno Kamala Harris sembra decisa a vincere concretamente la crisi climatica. La transizione che ha in mente prende la forma di un trampolino per chiudere con il periodo di relativa deindustrializzazione degli ultimi decenni ed entrare in una fase di reindustrializzazione protezionistica e competizione con la Cina.
Trump farebbe marcia indietro su tutto, Harris manterrebbe tutto com’è, continuando ad aumentare la produzione di “energia verde” senza però diminuire quella fossile. Un processo di affiancamento energetico che può avere senso sul piano commerciale, molto meno efficace sul piano concreto della lotta alla crisi ambientale.
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