Spiegare l’impatto degli Stati Uniti sulla crisi climatica è un’operazione allo stesso tempo semplice e complessa. In questo articolo ci saranno un po’ di numeri di grandi dimensioni, come inevitabile per raccontare il rapporto tra un’economia di oltre 300 milioni di persone e l’atmosfera terrestre.

Però partiamo da un dettaglio semplice: un frigorifero, un qualsiasi frigorifero di una normale casa di New York, Pittsburgh o Phoenix. Quel frigorifero americano, con i suoi consumi energetici, impatta in un anno sul cambiamento climatico terrestre quanto tutta la vita e tutti i consumi nello stesso anno di una famiglia di cinque persone in Etiopia.

È un buon modo per visualizzare il tema principale della crisi climatica: le disuguaglianze. Il riscaldamento globale è un problema umano, ma non causato da tutti gli umani allo stesso modo.

Da quando è iniziata la rivoluzione industriale basata sulle fonti fossili di energia, gli esseri umani hanno mandato nell’atmosfera 2500 miliardi di tonnellate di CO2, che hanno già riscaldato i pianeta di 1.3°C rispetto all’era pre-industriale. Il 20 per cento del totale (509 miliardi di tonnellate) lo hanno mandato gli americani.

Venti particelle di CO2 su cento che riscaldano il pianeta oggi derivano da automobili, hamburger, aeroplani e frigoriferi guidati, mangiati, decollati e perennemente accesi negli Stati Uniti. Da quel frigorifero di Pittsburgh, poi, il problema inizierà a diventare più complesso, sia dal punto di vista algebrico che politico, ma continuiamo a visualizzarlo, perché quel frigorifero ci dà la prima risposta di cui abbiamo bisogno.

Quanto impattano gli Stati Uniti sul clima? Tanto. Si può fare la transizione globale senza gli Stati Uniti? No. E se vince un presidente che non vuole fare la transizione? Allora abbiamo un grande problema.

Il peso delle emissioni

Il grande problema della CO2 è che una volta emessa in atmosfera la riscalda per secoli. Il che vuol dire che oggi abbiamo in atmosfera ancora la CO2 emessa al tempo di Roosevelt, ed è per questo che le cosiddette emissioni storiche sono un tema così importante.

Sul clima possiamo fare l’istantanea del presente (e la faremo), ma non possiamo prescindere da una fotografia con un tempo di esposizione secolare, perché è quella che il clima sta scontando, portandoci gli eventi estremi che stiamo vivendo ormai con cadenza settimanale.

In questa fotografia, il 20 per cento della CO2 oggi in atmosfera è stata emessa dall’economia Usa, l’11 per cento dalla Cina, il 7 per cento dalla Russia, il 5 per cento dal Brasile.

Oggi gli Stati Uniti non sono più il primo emettitore globale, se passiamo dalla storia al presente la Cina ha superato gli Usa, che oggi sono scesi dal 20 per cento delle emissioni storiche al 13,49 per cento delle emissioni presenti, che è comunque più di tutti i 27 paesi dell’Unione europea messi insieme.

Più fattori

Infine, cè la terza metrica (vi avevo detto che era complicato), quella delle emissioni pro capite, quelle per singolo abitante. La Cina oggi emette più CO2 degli Stati Uniti, ma in Cina vivono 1,4 miliardi di persone, negli Usa 339 milioni.

Se guardiamo alle emissioni pro capite, gli Stati Uniti balzano di nuovo in testa alla classifica, il 285 per cento della media globale, con 17,6 tonnellate di CO2 a testa. Un indiano, per dire, emette «solo» 2,5 tonnellate di CO2 all’anno.

E quindi? Quale dato conta? Quello nazionale storico, quello nazionale del presente, o quello per persona? La verità è che contano tutti e tre, e possiamo capire il cambiamento climatico, e l’impatto del paese, solo se li guardiamo in modo combinato, partendo dal frigorifero di Pittsburgh e arrivando all’intera economia.

Cosa ha fatto Biden

Ecco, arriviamoci all’intera economia. Gli Stati Uniti, nei quattro anni dell’amministrazione Biden, ci hanno provato, anche se in modo contraddittorio.

La lotta ai cambiamenti climatici dell’ultimo presidente è stato un misto di luci e ombre. Le luci sono il piano di riduzione delle emissioni del 50-52 per cento entro il 2030, lo strumento di questo piano di riduzione è il piano Ira, Inflation Reduction Act, votato nel 2022, il più ricco piano di lotta ai cambiamenti climatici al mondo.

Ci vorrà tutto il decennio in corso per vederne gli effetti (se non sarà smantellato da un eventuale presidenza Trump, ovviamente), ma qualcosa si può già valutare.

Leggendo le valutazioni del principale centro studi che si occupa di questa materia, Climate Action Tracker, a oggi, a metà del decennio gli Usa hanno raggiunto un terzo del loro obiettivo al 2030.

C’è un gap tra il 23 e il 37 per cento di riduzione tra quello che hanno promesso di fare e quello che oggi sono in grado di fare. Infine, l’obiettivo di 50-52 per cento è ancora troppo poco per tenere l’obiettivo primario – un riscaldamento di solo 1.5°C – alla portata.

La lotta che manca

Fine dei numeri, ora passiamo a qualcosa di molto più nero, denso e vischioso: il petrolio. Oppure qualcosa di inodore e incolore: il gas. Sono due delle tre fonti fossili di energia che in tutto rappresentano i due terzi del problema climatico.

Ecco, per valutare l’impatto degli Stati Uniti possiamo anche partire dal frigorifero dei nostri amici di Pittsburgh, ma non possiamo fermarci lì. Piano piano, grazie all’Inflation Reduction Act, quel frigorifero sarà alimentato da fonti rinnovabili, e quindi smetterà di inquinare da solo quanto cinque persone etiopi, ma rimane il problema dell’estrazione di idrocarburi, che gli Stati Uniti non sembrano in grado di risolvere, né i repubblicani né i democratici.

Con Biden presidente, la produzione di petrolio e di gas è arrivata a livelli da record, mai toccati né sotto Trump né sotto nessun altro presidente. Oggi gli Usa sono il principale produttore di petrolio e il principale produttore di gas al mondo.

È l’effetto di tante dinamiche, in particolare delle preoccupazioni globali per la sicurezza energetica dopo le sanzioni contro il gas russo, che hanno fatto schizzare in alto la domanda di gas liquefatto americano, che viene trasportato via nave per poi essere rigassificato alla destinazione finale, e che secondo studi recenti impatta 33 volte più del carbone sulla crisi climatica.

Senza intervenire su questo fronte, non ci può fare lotta seria al cambiamento climatico.

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