Il progetto presentato dal ministro è stato ritirato dopo le minacce di sciopero dei sindacati. Nel mirino delle proteste le nuove forme contrattuali che penalizzerebbero i gestori più piccoli
Vendite in nero che valgono il 10 per cento del giro d’affari complessivo, con perdite stimate per lo Stato di almeno 1,6 miliardi di euro l’anno, tra accise e Iva non pagate. Una rete di distribuzione pletorica e inefficiente, con migliaia di piccoli e piccolissimi imprenditori costretti a fare i salti mortali per sopravvivere oppure a confrontarsi con la concorrenza di chi non rispetta la legge. E infine, come risultato, consumatori insoddisfatti del servizio e costretti a pagare prezzi ben più alti rispetto a quelli correnti nel resto d’Europa.
Questa, in estrema sintesi, è la situazione del mercato dei carburanti in Italia, una palude di inefficienza e illegalità diffusa che il ministro Adolfo Urso promette da mesi di bonificare con una riforma complessiva del settore. Peccato che dopo mesi di annunci, la svolta è rimandata a data da destinarsi. Il disegno di legge di Urso, annunciato mesi fa e presentato al Consiglio dei ministri di mercoledì scorso, è tornato al ministero delle Imprese senza il via libera del governo.
Sindacati contro
Si ricomincia, quindi. La marcia indietro, per molti aspetti sorprendente non è in verità giunta del tutto inattesa. Da settimane i sindacati di categoria, quelli dei gestori delle pompe di benzina, sparavano ad alzo zero sui contenuti della riforma circolati sui media. A bloccare tutto, una frenata pilotata anche da Palazzo Chigi, è stata la reazione di Faib Confesercenti, Ficisc- Confcommercio e Fegica, pronti alla serrata se il provvedimento fosse stato approvato.
Le tre sigle, con un comunicato congiunto, hanno definito il progetto, «la più incauta e peggiore riforma del settore da quando in questo paese sono cominciati i rifornimenti ai veicoli». Una bocciatura senza appello per Urso, che si aggiunge al flop dei cartelli sul prezzo medio dei carburanti.
In sostanza, il disegno di legge mirava a innescare una sorta di selezione naturale tra i gestori, grazie anche a un giro di vite sui requisiti necessari per ottenere l’autorizzazione ad aprire un impianto, dalle verifiche supplementari in tema di legalità (certificati antimafia), agli standard tecnico organizzativi ed economici, fino all’obbligo, a partire dal primo gennaio del 2025, per i nuovi distributori di fornire un «vettore energetico alternativo ai combustibili fossili», cioè, in sostanza, ricarica elettrica o biocarburanti.
Secondo Unem, l’associazione confindustriale che rappresenta le aziende petrolifere, queste novità rappresentano invece un passo importante «per la razionalizzazione delle rete», che in Italia può contare su oltre 22 mila impianti che erogano in media 1,2 milioni di litri di carburante all’anno, contro i 4,3 milioni del Regno Unito, i 3,8 milioni della Francia e i 3,4 della Germania.
Da notare che mentre nel nostro paese l’erogato medio è diminuito nell’ultimo ventennio, negli altri mercati citati si è registrato il fenomeno opposto. Secondo quanto si legge nell’indagine conoscitiva pubblicata l’anno scorso dall’Antitrust, questa frammentazione favorisce “un’aumentata opacità nel funzionamento del mercato”. In altre parole, pur di far quadrare i conti molti gestori prendono la scorciatoia dell’illegalità. Anche i sindacati da tempo chiedono una riforma che metta un argine alla frammentazione della rete, ma definiscono i rimedi proposti da Urso «un premio alle compagnie petrolifere che negli ultimi 3/5 anni hanno chiuso i bilanci con utili mostruosi».
Appalti da rivedere
Le critiche si concentrano in particolare sulla riforma dei contratti che regolano i rapporti tra i gestori e i titolari delle autorizzazioni, contratti che secondo i sindacati, per effetto di quanto previsto nel disegno di legge finirebbero per essere applicati “a discrezione delle compagnie senza alcuna contrattazione della parte economica e normativa”. Lo scontro con i petrolieri riguarda il contratto d’appalto, di cui sono stati rivisti i requisiti. “Il disegno di legge mette ordine nella materia – sostiene il presidente di Unem, Gianni Murano - e definisce finalmente requisiti e modalità secondo cui l’appaltatore può operare sul punto vendita”.
Va detto che negli ultimi tempi ai è molto ridotta la presenza diretta delle grandi compagnie sul mercato della distribuzione, fino a una ventina di anni quasi completamente controllato dai big di settore. Gli operatori indipendenti adesso rappresentano più del 30 per cento del totale, ma molti di loro, circa i due terzi secondo l’Antitrust, possiedono meno di 10 punti vendita.
Come si è detto, per i sindacati la riforma dei contratti darebbe invece mano libera alle compagnie petrolifere e ai cosiddetti “retisti”, cioè i titolari di più impianti, restringendo ancora di più i margini di guadagno per i gestori. Da tempo, infatti, anche in Parlamento con le risoluzioni della Cinquestelle Chiara Appendino e di Vinicio Peluffo del Pd, quella che viene definita la “precarizzazione dei contratti”.
I sindacati parlano addirittura di caporalato petrolifero, con i gestori di fatto costretti a stipulare contratti che non rispettano le norme di legge. Per questo chiedono, tra l’altro, che vengano definite “ulteriori tipologie contrattuali” per proteggere le attività a rischio.
La materia è complessa e a questo punto Urso e i tecnici del ministero dovranno metter mano al progetto finito nel mirino dei gestori. Passeranno settimane, forse mesi prima che la riforma annunciata approdi finalmente in Parlamento.
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