Chi non fa, non sbaglia. Sembra questo il motto preferito al Mimit, il ministero delle Imprese e del made in Italy, sotto la guida di Adolfo Urso. Il bilancio è positivo se si parla di visibilità mediatica e di quantità di dichiarazioni. I risultati sono invece deludenti.

Dalla siderurgia, che attende un piano strutturale, alla transizione energetica, perno del Pnrr, la politica industriale del governo Meloni resta un mistero. Si va avanti a tentoni, a differenza dei partner europei che stanno già interloquendo con la Commissione Ue per destinare risorse comunitarie alle proprie imprese.

La Francia ha annunciato che investirà 23 miliardi di euro, la Germania addirittura 50 miliardi. E l’Italia? Chissà. Nemmeno si conosce la destinazione delle risorse ricavate dalle privatizzazioni.

Al massimo si parla di contatti in corso tra il Mimit e il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. «Abbiamo chiesto al ministro Urso un tavolo che sia in grado di chiarire al paese quali sono le scelte strategiche di politiche industriali e quali saranno i finanziamenti che saranno destinati alle politiche industriali», ha detto il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri.

Cina made in Italy

Le giravolte sulle auto green cinesi sono un indicatore dell’improvvisazione governativa. A inizio giugno, Urso ha accolto con «soddisfazione» l’introduzione dei dazi da parte dell’Unione europea verso le produzioni di auto provenienti dalla Cina.

Pochi giorni dopo, il ministro delle Imprese ha corretto il tiro, sostenendo di voler portare in Italia le produzioni dei big cinesi associandoli all’italianità. Una Cina made in Italy. A seguire c’è stata una nuova frenata: «Non sono scelte che si fanno in un giorno». Sul settore dell’automotive si fa fatica a capire la direzione.

Le conseguenze diventano pratiche. I numeri, spesso usati come propaganda dall’esecutivo per elogiare il proprio operato, fotografano gli affanni. «La produzione nell’industria è in flessione dalla fine del 2022 e nella media del periodo marzo-maggio si registra una contrazione della produzione dell’1,6 per cento rispetto ai tre mesi precedenti», ha annotato l’Ufficio parlamentare di bilancio.

L’industria è insomma in picchiata quasi proprio da quando si è insediata la leader di Fratelli d’Italia a palazzo Chigi. Certo, non tutto può essere addebitato alla premiata ditta Meloni & Urso, ma la concomitanza statistica è innegabile.

All’orizzonte non si scorgono segnali di inversione: a giugno il calo della produzione industriale, su base annua, è stato del 2,6 per cento, a maggio era del 3,3 per cento, ad aprile del 2,9 per cento. E dire che non sono mancati provvedimenti ad hoc, annunciati in pompa magna da Urso. L’ultimo caso è stato il decreto ribattezzato materie prime critiche, diventato legge in settimana con il definitivo via libera del Senato.

Il testo è stato illustrato come una svolta nell’approvvigionamento dei materiali necessari alla produzione delle industrie. Il contenuto è stato salutato come epocale dal Mimit, ma nei fatti si sofferma in gran parte sull’attività di estrazione mineraria.

Cosa significa? Vengono rilanciate l’apertura di nuove miniere e si interviene sulle procedure per ridurre i tempi di rilascio di autorizzazioni. Nessun cambio di passo. Anzi si rischia un pasticcio istituzionale. La presidente della Sardegna, Alessandra Todde, ha annunciato un ricorso alla Consulta per l’invasione di campo delle competenze.

Piano invisibile

Il vero specchio dell’assenza di politiche industriali è la siderurgia. Urso aveva annunciato un piano nazionale da presentare entro giugno, e renderlo operativo in pochi mesi, per sbloccare la situazione nell’intero paese. Si parlava di quattro poli da distribuire sul territorio nazionale, c’era l’idea – almeno sulla carta – di una strategia omogenea per rilanciare il settore.

La realtà è andata in un’altra direzione, l’acciaio continua a essere il simbolo dell’immobilità industriale italiana. Al ministero delle Imprese è stato convocato un tavolo che non ha modificato le carte in tavola. Nel frattempo, la situazione dell’ex Ilva è rimasta in uno stato di sospensione. Dopo il prestito-ponte di 320 milioni di euro delle scorse settimane, è rimasto tutto uguale.

Urso ha annunciato qualche giorno fa il via libera alle manifestazioni di interessi per l’acquisizione dello stabilimento. «Mi auguro che entro la fine dell’anno o più verosimilmente nella prima parte del prossimo anno, ci saranno dei player internazionali industriali di valore che possono rilanciare con noi quello che può tornare ad essere il principale sito siderurgico green d’Europa», ha detto il ministro.

Una visione ottimistica generica senza chiarire vari punti. «Come sarà ceduta l’ex Ilva? Sarà fatto uno spezzatino?», chiede il senatore del Pd, Andrea Martella, che più volte ha sollecitato una soluzione e la necessità di fare chiarezza da parte del governo. E in primis dal ministro titolare del dossier.

A braccetto con la siderurgia c’è la transizione energetica e ambientale. Anche in questo caso il governo è prolifico di provvedimento, spesso di natura ministeriale. Di recente ha licenziato un testo che modifica il rilascio delle autorizzazioni per le rinnovabili, del resto è noto che l’obiettivo è il ritorno al nucleare. E pazienza se i tempi si prospettano lunghissimi.

Ci sono altri comparti industriali lasciati in balia delle onde e del mercato. «Sulla componentistica abbiamo know how che non sfruttiamo, così come sulla moda manca una strategia strutturale. Rischiamo di vendere marchi, senza una progettualità», ricorda a Domani Pino Gesmundo, segretario confederale della Cgil.

Un fatto che non sorprende: Urso non ha ancora completato l’attuazione della sua riforma madre, la legge sul Made in Italy, approvata a dicembre dello scorso anno. All’attivo mancano 30 decreti attuativi, e centinaia di milioni di euro restano bloccati.

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