In pochi anni i rischi geopolitici stanno cambiando la struttura dei rapporti economici che avevano governato il mondo negli ultimi trent’anni. Il loro costo economico graverà maggiormente sull’Europa, e in particolar modo sulla Germania pregiudicando la sua capacità di crescita.

Il modello di crescita tedesco, a differenza degli Stati Uniti, era basato sulla prevalenza delle esportazioni sui consumi, dell’industria su tecnologia e servizi, e sulla dipendenza dalla Russia per l’energia e dalla Cina per materiali e componenti essenziali. Un modello che i cambiamenti geopolitici hanno messo irreparabilmente in crisi. Rispetto agli anni pre Covid il Pil della Germania è così cresciuto a un tasso medio annuo di appena lo 0,28 per cento, rispetto al 2,1 degli Stati Uniti.

Le mire espansionistiche della Russia con l’invasione dell’Ucraina, e il suo posizionamento in chiave anti-occidentale, costringe la Germania, per posizione geografica e dimensione, a farsi carico dei maggiori costi della difesa, passati in pochi anni dall’1,2 per cento del Pil al 2, e destinati a crescere ulteriormente aggravando il peso sulle finanze pubbliche a scapito di altri programmi di investimento, tenuto conto dei vincoli costituzionali sul bilancio federale.

Transizione difficile

La fine della dipendenza dalle forniture di energia russa ha inoltre imposto alla Germania un’accelerazione negli investimenti in rinnovabili, che però necessitano di massicci investimenti e incentivi pubblici. Ma i vincoli di bilancio non le permettono di sussidiare il più elevato costo energetico della sua industria, la quale preferisce pertanto in misura crescente dirottare i propri investimenti all’estero (si stima il 30 per cento delle imprese). La Germania non ha però un’industria competitiva nelle rinnovabili, con i produttori cinesi e asiatici che dominano nei pannelli solari, batterie, l’acciaio per l’eolico, auto elettriche e semiconduttori.

Quindi, o la Germania sussidia lo sviluppo di un’industria domestica e la protegge con tariffe, aumentando però l’inflazione e l’onere per le finanze pubbliche; o fa affidamento sulle importazioni a basto costo dalla Cina, accrescendone però la dipendenza.

La Cina ha costituito un grande mercato per l’industria tedesca, con esportazioni per complessivi 1.200 miliardi negli ultimi 15 anni, di poco inferiori ai 1.600 verso gli Stati Uniti e ai 6.900 verso l’Eurozona, di gran lunga la principale fonte di crescita tedesca. Ma la Cina è anche un fornitore di materiali e componenti essenziali per le imprese tedesche (29 per cento fa affidamento sull’import cinese), che ora è diventato anche un temibile concorrente.

Così, al netto delle importazioni, la Germania ha complessivamente accumulato in 15 anni un surplus di 1.200 miliardi verso l’Eurozona, 650 verso gli Usa, ma un deficit di 360 rispetto alla Cina.

La terza crepa

Una vittoria di Trump rischia di aprire una terza crepa nel modello tedesco: la prospettiva di una tariffa del 10 per cento sulle importazioni europee e di una svalutazione del dollaro colpirebbe il primo mercato per l’export tedesco; oltre ad aumentare la pressione sulla spesa per la difesa. Una crisi che la Germania affronta con un governo di coalizione litigioso guidato da un cancelliere il cui partito è nettamente minoritario nel paese.

La crisi tedesca tocca in pieno l’Italia: perché la sua crescita dipende dalla salute della principale economia dell’area; perché anche la nostra crescita è trainata dalle esportazioni, più che dalla domanda interna; dipendiamo dall’import cinese; i vincoli di bilancio non ci permettono di finanziare la ristrutturazione del nostro modello economico, ammesso ce ne sia la consapevolezza e capacità; si sono dissipate risorse pubbliche con bonus e spesa improduttiva.

Il Pnrr ha mostrato che le risorse non sono il vero vincolo alla crescita, ma l’incapacità di attuare investimenti e riforme e l’instabilità della politica in Europa impedisce una strategia comune per affrontare il nuovo scenario economico, di cui l’Italia sarebbe uno dei principali beneficiari.

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