Sono giorni decisivi per l’acciaieria Ilva e relativi novemila dipendenti delle sedi di Taranto, Genova e Novi Ligure. In queste ore i commissari Giancarlo Quaranta, Davide Tabarelli e Giovanni Fiori, incaricati di esaminare le offerte, sono volati in Azerbaigian per visitare gli impianti del pretendente azero Baku Steel, che sarebbe il favorito.

Sul piatto ha messo 1,1 miliardi, di cui 600 milioni per il magazzino e mezzo miliardo per l’impianto, oltre alla promessa di mantenere 7.800 posti di lavoro per due anni, requisito indicato nel bando di vendita di AdI, Acciaierie d’Italia, società a sua volta figlia dell’amministrazione straordinaria di Ilva. Il ministro del Made in Italy Adolfo Urso dovrà decidere a chi assegnare la gestione, e non la proprietà dei beni, che resta sotto sequestro della magistratura finché non saranno fatte tutte le bonifiche.

L’Ilva perde 100 milioni di euro al mese, e ha una produzione che sfiora i tre milioni di tonnellate di acciaio annuo, ben lontano dal break even, stimato a 6 milioni di tonnellate.

Il viaggio azero

I commissari stanno ora in Azerbaigian, a Baku, dove si trova la sede della Baku Steel che, recita il sito aziendale ha una capacità annua massima di 800mila tonnellate di acciaio.

In base agli analisti di Almet Trading, «la produzione di acciaio in Azerbaigian nel 2024 è di 352mila tonnellate di acciaio», supponendo che Baku Steel, sia l’unico acciaiere del paese, la sua produzione si attesta quindi a un decimo dell’Ilva in versione disastrata.

Per capirci, in passato a cercare di rimettere sui giusti binari l’Ilva c’era Arcelor Mittal, che di tonnellate d’acciaio ne produce 80 milioni l’anno.

Il rigassificatore

Viene da chiedersi se Baku, che ha una capacità industriale simile a quella di un piccolo produttore di acciaio a gestione famigliare, abbia la forza e la capacità di rimettere sui giusti binari Taranto, che ha bisogno di tanti soldi per riparare ai danni dalla gestione Arcelor Mittal, ma ha soprattutto bisogno di competenze.

Se l’intenzione è riportare in utile l’impianto, non solo è necessario riaccendere l’area a caldo, ovvero riqualificare sistematicamente gli altoforni e portarli a una meno inquinante produzione da preridotto, ma soprattutto va riaccesa l’intera filiera, la laminazione a freddo, cosa che non sembra essere stata contemplata nel piano degli azeri. I quali pongono un’interessante condizione nella loro proposta, un rigassificatore galleggiante nel porto di Taranto per rifornire di gas l’impianto tarantino.

Da un lato la richiesta pare comprensibile, per via del costo elevato dell’energia in Italia, dall’altro lato il rigassificatore potrebbe essere il vero obiettivo degli azeri, che così facendo potrebbero controllare altri 5 miliardi di metri cubi di gas importato in Italia, quindi arrivando ad avere in mano circa il 25 per cento del nostro fabbisogno, con il placet dei russi, alleati degli azeri nel comparto energetico.

Per altro il rigassificatore, da rifornire tramite gnl, ovvero gas liquefatto, sarebbe l’ennesimo schiaffo a un territorio dove insistono la raffineria Eni, la più grande d’Europa, e l’acciaieria più grande d’Europa, l’Ilva appunto – un’azienda priva persino del piano antincendio – che anche da ferma non smette di inquinare. C’è anche da chiedersi se la presenza degli azeri e del rigassificatore si sposi bene con la vicina più grande base navale della Nato del Mediterraneo.

Chissà. Inoltre c’è il rischio che Jindal possa impugnare l’esito della gara, dal momento che nel bando non si fa menzione al rigassificatore. Si spera che il ministro Adolfo Urso e la premier Giorgia Meloni ne siano consapevoli.

L’alternativa Jindal

L’alternativa è l’offerta degli indiani di Jindal Steel International che ha un’offerta economica meno interessante, circa 300 milioni euro in meno, ma un piano industriale più strutturato.

I commissari hanno incontrato nei giorni scorsi i vertici di Jindal, chiedendo delucidazioni sulle tempistiche di avvio del piano industriale, che prevede di mettere sul piatto 500 milioni per il magazzino, più 200 milioni per l’intero complesso e un ulteriore investimento da due miliardi per il rilancio dell’impianto, da sgranare nel corso del prossimo biennio, per la realizzazione di forni elettrici utili alla realizzazione di acciaio primario da preridotto, più la riaccensione dei laminatoi.

Fare in fretta

Il commissario Giancarlo Quaranta avrebbe spiegato ai sindacati la delicatezza del momento e la difficoltà di rimettere in attività l’impianto, nonché l’intenzione di voler chiudere l’intero procedimento di vendita entro maggio, accordo sindacale compreso, perché un’ulteriore dilazione non sarebbe economicamente sostenibile per le casse pubbliche.

Negli ultimi due anni fra prestiti ponte e anticipi sull’ambientalizzazione il conto è lievitato a un miliardo.

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