Aggrapparsi ai dati, quelli utili a consolidare l’immagine del governo, e trascurare il resto. Questo è da sempre lo stile comunicativo di Giorgia Meloni quando viene chiamata a commentare i numeri dell’economia italiana. E anche nell’intervista pubblicata ieri da Sette, il settimanale del Corriere della Sera, la premier torna a recitare il copione consueto.

Enfasi sui numeri positivi – «la ritrovata fiducia degli investitori internazionali», la Borsa che ha «toccato il record», il tasso di occupazione che è «il più alto dalla spedizione dei Mille» – mentre viene ignorato tutto quanto stona con la propaganda governativa. Problemi come il rallentamento della crescita, la lunga frenata della produzione industriale, i salari che restano bassi, non vengono toccati neppure per smentirli, o sminuirli. E così, l’intervista scorre tra errori, bugie e omissioni. Ecco alcuni esempi, i più vistosi.

Il Pil che rallenta

Sostiene Meloni che «i dati macroeconomici sono positivi», ma le sue parole sono il frutto, nella migliore delle ipotesi, di un’illusione ottica. In realtà, nel corso del 2024 la crescita del Pil si è molto indebolita e nel terzo trimestre si è addirittura fermata. Non per niente, i principali centri di ricerca italiani e internazionali stimano per l’anno appena concluso un incremento di molto inferiore all’1 per cento accreditato dal governo. Banca d’Italia prevede un più 0,6 per cento, la Commissione Ue si aspetta un più 0,7 e l’Ocse non va oltre lo 0,5 per cento. Il 2025 dovrebbe andare meglio, ma l’1 per cento atteso dai più ottimisti (Bankitalia) resta inferiore all’1,2 per cento che compare nei documenti del ministero dell’Economia.

Quanto ai confronti con gli altri grandi paesi europei, è vero che la Germania stenta a uscire dalla recessione, ma la Francia, che pure non se la passa bene, resta in vantaggio sull’Italia nel 2024 (fonte Commissione Ue e Ocse) e perderà terreno (poco) solo quest’anno, mentre la crescita spagnola (più 3 per cento nel 2024 e 2,3 nel 2025) resta un miraggio per Roma. Le preoccupazioni maggiori, quelle di cui Meloni non parla, riguardano però l’industria nazionale. Il “contatore della crisi” pubblicato quotidianamente in prima pagina dal Sole 24Ore, segnala che a ieri erano 702 i giorni consecutivi di calo della produzione industriale, diminuita a ottobre (dato più recente di fonte Istat), del 3,6 per cento rispetto a un anno prima.

Lavoro a rischio

Meloni vanta «l’inversione di rotta» dei dati sull’occupazione, che in effetti è molto cresciuta sotto il suo governo, consolidando una tendenza che risale almeno ai tempi dell’esecutivo di Mario Draghi. Adesso però molti analisti temono che il rallentamento del Pil finisca prima o poi per frenare la creazione di nuovi posti di lavoro.

Già adesso alcuni importanti focolai di crisi vengono circoscritti grazie agli ammortizzatori sociali. Basti pensare a Ilva, Stellantis (con l’indotto dell’auto) e Beko (elettrodomestici). Infatti, nei primi nove mesi del 2024 le ore di cassa integrazione richieste dalle imprese sono aumentate del 23,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023.

Va poi ricordata un’altra nota stonata che non compare nei trionfali bollettini meloniani. Se da una parte il tasso d’occupazione nel nostro paese fa segnare nuovi record, rimanendo comunque ben al di sotto della media europea, la questione dei bassi salari dei lavoratori italiani è tutt’altro che risolta.

Come segnala Bruno Anastasia in un intervento su lavoce.info, «le retribuzioni lorde effettive dei dipendenti pubblici e privati (al netto di domestici e operai agricoli) sono cresciute in media, tra il 2019 e il 2023, attorno al 6-7 per cento». Nello stesso periodo, però, l’inflazione ha sfiorato il 18 per cento e se consideriamo i prezzi dei soli prodotti alimentari l’aumento dei prezzi tocca il 25 per cento.

La perdita del potere d’acquisto dei salari è stata quindi notevolissima. Nel 2024 non sono mancati i segnali di ripresa, grazie al calo dell’inflazione e ai limitati effetti del taglio del cuneo fiscale sommati a quelli di alcuni rinnovi contrattuali. Proprio venerdì 3 gennaio l’Istat ha comunicato che nel terzo trimestre del 2024 il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato dello 0,4 per cento rispetto ai tre mesi precedenti. Un dato positivo, ma resta ancora molto terreno da recuperare prima di cantar vittoria anche su questo fronte.

E certo non aiuta il fatto che nel frattempo la pressione fiscale è arrivata al 40,5 per cento, lo 0,8 per cento in più rispetto al terzo trimestre del 2023. Non è granché come risultato per un governo che da sempre mette il taglio delle tasse al primo posto delle proprie ricette economiche.

Spread e Borse

Meloni non si stanca di ripetere che lo spread «è nettamente inferiore» rispetto a quando si è insediato il suo governo. Tutto vero, ma la notizia va inserita nel contesto di uno scenario finanziario ben più complesso. La stabilità politica e il rigore nei conti pubblici hanno di certo consolidato la fiducia degli investitori internazionali nei confronti di Roma.

Il rischio Italia resta entro i livelli di guardia, ma per piazzare i nostri Btp sui mercati il Tesoro è ancora costretto a garantire i rendimenti più elevati di tutta l’area dell’euro, superiori anche a quelli della Grecia.

Quanto allo spread, il calo si spiega anche con il netto aumento dei tassi sui Bund tedeschi. Se questi ultimi rendono di più per via dei guai della Germania, anche per i Btp diventa più facile ridurre il differenziale di rendimento con i titoli di Berlino, misurato, appunto, con lo spread. Infine, la Borsa, che, dice Meloni, «ha toccato il record».

È vero che Piazza Affari nell’anno appena trascorso ha messo a segno un rialzo del 12 per cento circa, ma il listino nostrano non è certo il migliore d’Europa. Madrid ha fatto meglio, più 14 per cento, e Francoforte ha corso ancora più veloce con un incremento del 18 per cento circa. Una conferma, semmai servisse, che ai rialzi di Borsa non sempre corrisponde un’economia in salute.

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