Sarà che il nome porta sfortuna dopo il clamoroso flop governativo dell’anno scorso. Sarà che il concetto di per sé appare sfuggente: a che livello i guadagni di un’azienda diventano straordinari e quindi meritevoli di una tassazione supplementare? Fatto sta che al momento la preoccupazione maggiore dalle parti di XX settembre a Roma, nella sede del ministero dell’Economia, sembra quella di cancellare dal dibattito il fastidioso termine “extraprofitti”.

Il problema, però, è che Giancarlo Giorgetti, titolare del Mef, è alla ricerca, una ricerca che appare di giorno in giorno più affannosa, di fondi supplementari per tappare i buchi della manovra. E allora, in qualche modo, i soldi vanno presi dove ci sono, come lo stesso ministro ha ricordato nella sfortunata (per lui) esternazione di giovedì.

Che fare dunque? La parola magica, questa volta, è “crediti d’imposta” e riguarda in primo luogo le banche. In sostanza, gli istituti scaglionerebbero su un arco di tempo più lungo di quanto previsto finora i crediti d’imposta derivanti dalla conversione delle cosiddette DTA, una sigla che sta per Deferred Tax Assets”.

Queste ultime sono in sostanza tasse che sono state messe a bilancio in vista di utili futuri. Negli anni scorsi le norme che riguardano queste particolari voci contabili sono state più volte riviste e adesso i tecnici del Mef stanno valutando un intervento che permetta allo Stato di ritardare il pagamento alle banche dei loro crediti.

La giostra delle ipotesi

La materia è complessa, ma secondo indiscrezioni, il provvedimento allo studio potrebbe fruttare fino a un paio di miliardi. Questa soluzione ha guadagnato punti soprattutto dopo le parole di Carlo Messina, il manager a capo di Intesa, la più grande banca italiana, che giovedì ha detto che per contribuire alla soluzione del debito pubblico si potrebbe “lavorare sulle attività fiscali differite”.

Certo è che la misura sulle Dta non basterà a chiudere il cerchio della manovra. Mancano ancora all’appello almeno una decina di miliardi ed è per questo che la giostra delle ipotesi gira da giorni all’impazzata. Ieri si è rimbalzata nelle cronache anche una possibile tassa supplementare sulle sigarette, pari a cinque euro a pacchetto. La proposta, presentata in Senato, è stata avanzata dall’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e potrebbe fruttare circa 14 miliardi da destinare al Servizio sanitario nazionale sempre più a corto di risorse.

A stretto giro è arrivato il sostegno della vicepresidente del Senato Domenica Castellone, che ha annunciato un prossimo emendamento alla manovra. Si vedrà. Intanto, si parla anche di una nuova Ires, l’imposta sugli utili societari, che verrebbe riformata con l’introduzione di aliquote differenziate in base ai profitti.

Già da alcuni anni le banche pagano un’Ires maggiorata di 3,5 punti percentuali, ma la misura allo studio adesso prevede, a quanto si è capito, la creazione di veri e propri scaglioni di reddito come per l’Irpef. Solo ipotesi, per il momento.

Passare dalle parole ai fatti sarà complicato, senza contare che il governo rischia grosso anche sul piano politico. Dopo aver vinto le elezioni promettendo che mai e poi mai avrebbero aumentato le tasse, ora i partiti di maggioranza si trovano costretti a ragionare di nuovi prelievi per coprire i buchi nei conti pubblici. Si spiega così la levata di scudi dalle fila del centrodestra dopo il discorso di Giorgetti, che due giorni fa ha evocato sacrifici a carico di tutte le categorie.

Provvedimenti come il condono tombale ai lavoratori autonomi che aderiscono al concordato preventivo biennale sono utili per tranquillizzare una parte dell’elettorato, quella da sempre più vicina alla maggioranza di governo.

Promesse tradite

Nel frattempo, però, le statistiche più recenti rivelano che il peso delle tasse è aumentato proprio con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. I dati diffusi ieri dall’Istat fissano al 41,3 per cento la pressione fiscale nel secondo trimestre di quest’anno, contro il 40,6 per cento dello stesso periodo del 2023.

Del resto, già nei giorni scorsi, dalla lettura del Piano strutturale di bilancio a sette anni appena pubblicato dal Mef, era emerso che la pressione fiscale arriverà al 42,8 per cento nel 2025, mezzo punto percentuale in più rispetto a quanto stimato nel 2024. Insomma, alla voce fisco, il governo finisce per smentire le sue stesse promesse elettorali.

Ancora più preoccupante, in prospettiva futura, appare un altro dato pubblicato dall’Istat. Questa volta è il Pil che aumenta a un ritmo inferiore rispetto a quanto accreditato dalla propaganda governativa. La crescita acquisita nella prima metà dell’anno non supera lo 0,4 per cento, un numero rivisto al ribasso rispetto allo 0,6 per cento calcolato in precedenza. La correzione è l’effetto della revisione generale dei conti nazionali resa nota lo scorso 23 settembre.

Alla luce di questo aggiornamento sembra sempre più difficile centrare l’obiettivo di crescita dell’1 per cento fissato dal governo. Insomma, la crescita rallenta e le tasse aumentano. Non è proprio l’Italia promessa da Meloni.

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