Lo scandalo scoppiato a settembre in una scuola sudtirolese non si comprende fuori dal contesto. E ha messo in luce un conflitto ideologico profondo sul futuro della società in tutto l’Alto Adige
Al margine del centro di Bolzano, in mezzo a una piazza alberata intitolata alla Madonna (Marienplatz), si erge una colonna realizzata nel 1909 dallo scultore neogotico Andreas Kompatscher. L’iscrizione, posta sul basamento, rivela il motivo della sua collocazione. Dal 1836 al 1854 si era diffusa in città e nei suoi dintorni un’epidemia di colera che causò più di duecento morti. A quel tempo non doveva essere insolito confidare ancora negli interventi taumaturgici.
Alle spalle della colonna sormontata dalla vergine appare la coeva scuola elementare Goethe. Dalla pagina Wikipedia che ne ripercorre la storia apprendiamo che, quando fu costruita, la struttura si chiamava Mädchenschule Kaiser-Franz-Joseph, ed era dunque destinata all’esclusiva istruzione delle ragazze. L’annessione al Regno d’Italia (1919) e, soprattutto, l’avvento del fascismo cambiò tutto, anche per quanto riguarda la Mädchenschule Kaiser-Franz-Joseph. Rimosso qualsiasi riferimento cacanico, le venne dato il nome di Scuola Adelaide Cairoli, ed Emma von Leurs, storica direttrice in carica fin dalla fondazione, perse il posto in seguito alle misure di italianizzazione forzata.
Solo dopo il crollo del fascismo, e terminata la guerra, la scuola ha recuperato lentamente la sua funzionalità e anche la sua destinazione originaria: educare i bambini (stavolta senza preclusioni di sesso) in lingua tedesca. Il nome “Goethe” le è stato conferito nel 1960, vale a dire proprio quando si annunciava il faticoso processo di ridefinizione istituzionale in grado di portare, dieci anni dopo, all’approvazione del secondo statuto d’autonomia (1972) da allora in vigore. Uno dei capisaldi dell’autonomia consiste nel sistema scolastico suddiviso in tre indirizzi di fondo, offrendo cioè a ogni gruppo linguistico la possibilità di usufruire dell’insegnamento nella rispettiva madrelingua.
Beninteso: offrire tale possibilità non esclude che a qualcuno venga in mente di iscrivere i propri figli alle scuole previste per gli “altri”. Un diritto riconosciuto, per fortuna, ma anche una fonte di problemi, come vedremo, in particolare se tra questi “saltatori dei fossati etnici” si trovano individui che non sono né tedeschi, né italiani, né ladini, bensì provenienti dal vasto mondo.
Un caso controverso
Rievocare tali circostanze non è un mero esercizio di saccente pignoleria, o una descrizione di contorno, ma serve per chiarire una notizia, uno “scandalo” , che – se privato di un esaustivo riferimento al contesto – potrebbe apparire poco comprensibile. Trascrivo alcuni titoli apparsi all’inizio di settembre sulla stampa nazionale, quando se ne cominciò a parlare. “Bolzano, scuola elementare forma una classe di soli migranti e italiani che non sanno il tedesco: scoppia il caso” (La Repubblica), “Bolzano, classe di soli migranti e italiani. Non sanno il tedesco. È polemica” (Il Sole 24 Ore), “Cos’è questa storia della classe ghetto di Bolzano con soli migranti e italiani che non parlano il tedesco” (fanpage.it).
Per capire davvero di cosa si tratta occorre riportare le dichiarazioni originarie di Christina Holzer, direttrice della scuola Goethe che, per l’appunto, avrebbe voluto adottare la decisione tanto discussa. «Quest’anno», così Holzer, «avremo per la prima volta tre prime classi anziché quattro. Una seguirà il programma orientato alle linee della cosiddetta Educazione Nuova (denominazione che raggruppa diversi indirizzi pedagogici “alternativi”, ndr), percorso tradizionalmente scelto da bambini di lingua tedesca. Dato che poi avremo anche 16 bambini che non hanno il tedesco come madrelingua, non avrebbe senso dividere il resto degli altri dieci bambini di madrelingua tedesca in due classi» (Rainews.it).
Decisione in apparenza non razzista, bensì puramente organizzativa, quindi, anche se occorre spiegare meglio perché «non avrebbe senso» dividere dieci bambini di madrelingua tedesca in due classi formate complessivamente da 16 bambini non di madrelingua tedesca (operassimo in modo aritmetico avremmo due classi formate da 13 bambini, ognuna delle quali con all’interno cinque bambini di madrelingua tedesca e otto bambini di altra madrelingua), e puntare invece su due classi delle quali una costituita da soli parlanti tedesco e l’altra (la classe, l’abbiamo visto, definita sbrigativamente “ghetto”) da parlanti lingue diverse dal tedesco.
Il rischio ideologico
Quando si affrontano tematiche del genere, il rischio di cedere a semplificazioni ideologiche è altissimo. Per di più si tratta di semplificazioni che tendono ad accendere gli animi, a fomentare vecchi pregiudizi, per poi lasciare tutto marcire e disperdersi in sterili diatribe. Chi ha sin qui appoggiato perlopiù strumentalmente la scelta della direttrice della scuola Goethe – in primo luogo il quotidiano in lingua tedesca Dolomiten, oltre ad alcuni rappresentanti della Südtiroler Volkspartei in contrasto con l’indirizzo dettato sia dal governatore della provincia, Arno Kompatscher, che dall’assessore alla scuola e cultura tedesca Philipp Achammer – tende a dire: un’offerta didattica che per statuto ha il compito di difendere il diritto della minoranza non può essere compromessa dalla partecipazione eccessiva di parlanti un’altra lingua, che magari si iscrivono in una scuola tedesca proprio al fine di impararlo, il tedesco, ma che poi, essendo in molti, o addirittura la maggioranza, vanificherebbero il perseguimento di tale obiettivo e nuocerebbero agli altri.
Preoccupazione comprensibile, anche se poi ritorna lo spettro di un’assimilazione strisciante (non troppo diversa da quella patita durante gli anni del fascismo), innescando la reazione contraria, altrettanto ideologica, di chi, meno sensibile alle esigenze della minoranza, predica le scuole uniche e si illude che, in questo modo, siano contemporaneamente risolti tutti i problemi.
In mezzo ai fronti contrapposti le aspirazioni delle famiglie, lo spaesamento degli insegnanti e quello dei dirigenti scolastici, i quali lamentano la mancanza di un numero sufficiente d’insegnanti di sostegno.
Sul tappeto restano così domande scottanti. Come garantire l’accesso a una istruzione di qualità, senza trascurare le difficoltà presentate da chi parte svantaggiato o con presupposti diversi? Come preservare la preminenza, o anche solo la cura di una certa lingua, in una società sempre più caratterizzata dal plurilinguismo e dalla compresenza di molteplici culture?
Soprattutto, come corrispondere a tutte queste sfide e a tutti questi cambiamenti senza dotarsi di una regia complessiva, posta finalmente a cavallo dei gruppi linguistici, che non abolisca il principio dell’insegnamento nella madrelingua, ma che neppure finisca per congelarlo dentro insormontabili recinti?
Un futuro difficile
È trascorso quasi un mese e mezzo da quando è scoppiato, eppure il caso della scuola Goethe (paradigmatico, perché potenzialmente tutt’altro che isolato) continua a essere dibattuto rivelando profonde linee di frattura nella società e nella politica locale.
Anche se la classe “speciale” non è stata varata, la dirigente Holzer rischia di subire un procedimento disciplinare da parte della sua intendenza di riferimento, mentre i suoi difensori non si stancano di ritenere che il problema da lei sollevato si debba affrontare mettendo tra parentesi la legislazione intonata ai principi dell’inclusione (un esponente del partito secessionista Süd-Tiroler Freiheit si è fatto addirittura latore dell’assurda proposta di imporre, nelle scuole tedesche, il tedesco persino nelle pause).
Tra quelli che invocano il bisogno di liberare le scuole dal giogo della politica e gli altri, che al contrario ritengono sia proprio compito di una nuova politica guidare le esigenze della scuola in una società in trasformazione, il Sudtirolo odierno continua a offrire l’immagine di una terra in parte ancorata a un repertorio di obsoleti automatismi, oltre i quali si protende un futuro per adesso difficile da plasmare.
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