Nell’immaginario comune le donne pakistane esistono solo come vittime. Sono donne che vengono ammazzate dai mariti, dai genitori, dallo Stato, ma non sono mai emancipate, non sono mai un soggetto politico.

Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace nel 2014 ad appena 17 anni - e di gran lunga la donna pakistana più celebre al mondo - ha dimostrato che le donne pakistane sono politicizzate e attive.

Già dall’epoca dei moti indipendentisti del 1947 le donne hanno attivamente partecipato alla lotta per la liberazione dal colonialismo inglese e dopo l’indipendenza hanno sempre rivendicato una centralità nella vita sociale e politica.

Dittature e repressione

La storia del femminismo pakistano va di pari passo con la instabile storia politica del paese: nel corso di 77 anni di storia ci sono stati in tutto 3 dittature militari (di cui una basata sulla sharia) che hanno plasmato l’identità del paese e il suo rapporto con il genere femminile. In particolar modo il generale Zia Ul Haq, al potere dal 1977 al 1988, nel suo progetto despotico di islamizzazione forzata del paese colpì in particolar modo il genere femminile, isolandolo dalla vita pubblica e imponendo una morale e un'idea di decoro estremamente misogina.

Questi 11 anni hanno prodotto non solo repressione, ma anche una tradizione femminista clandestina. Tra i vari movimenti è possibile citare il WAF, nato proprio per contrastare queste leggi e idee apertamente misogine e regressive. La resistenza femminista è sempre stata pacifica e pluralistica, in cui donne, cisgender e trans, si sono unite al grido di uguaglianza.

Le figlie e le nipoti della generazione femminista degli anni 80 si sono a loro volta organizzate, portando la questione di genere a livello di massa grazie alle Aurat March - la marcia delle donne - che dal 2018 incendia le strade non sono delle metropoli ma anche delle zone remote alle pendici dell’Himalaya o al confine con l’Afghanistan.

«Il corpo è mio»

Le richieste sono molteplici ma si possono riassumere in un semplice ‘’Il corpo è mio e decido io’’, che in Pakistan ha una valenza politica ben precisa. Si protesta contro l'ipocrisia della società patriarcale che vuole le donne pakistane assoggettate alla morale islamista ma senza il riconoscimento dei diritti e le protezioni che lo stesso islam dà alle donne.

In quest’ottica ‘’il corpo è mio e decido io’’ significa rifiutare apertamente questa morale e decidere veramente per sé stesse in ogni sfera della propria esistenza. Significa rifiutare ogni responsabilità di una violenza subita, in strada o in famiglia. Significa avere una possibilità di scelta se sposarsi o meno, senza pressioni o forzature.

Significa prendere spazio nei luoghi pubblici senza indossare un velo, che non è obbligatorio ma è rimasto come retaggio della sharia degli anni Ottanta.

Lotta di classe

Un altro aspetto chiave del femminismo pakistano è la sua forte intersezionalità con le lotte per l’emancipazione omosessuale e trans, in un paese dove essere omosessuali è ancora reato.

Spesso le Aurat March sono guidate da esponenti delle comunità trans e non binarie, proprio a simboleggiare l’unità delle due lotte. La comunità trans è storicamente stata la più grande alleata delle donne sud asiatiche in quanto ‘’ponte’’ con la maschilità ma anche come soggetto marginalizzato dal patriarcato.

L’emancipazione delle soggettività marginalizzate passa anche dalla lotta di classe: infatti molte sono le donne che si identificano come libertarie e socialiste.

Ogni anno in ogni città viene organizzata la marcia tenendo in forte considerazione la partecipazione delle donne appartenenti alle classi più povere della città, come le fabbricanti di mattoni a Multan o le lavoratrici domestiche a Lahore, quasi sempre ridotte in semi-schiavitù.

Ostacoli

Queste battaglie però non sono ben accolte, infatti spesso la società civile e la politica, dominata da uomini, si è detta contraria a questo genere di manifestazione e di idee.

Il femminismo viene percepito come estraneo al decoro conservatore pakistano e soprattutto contrario alle idee di famiglia e di tradizione.

Bollate come libertine, osteggiate e pubblicamente umiliate, le femministe pakistane non si fermeranno così facilmente e soprattutto non dobbiamo mai compatirle, bensì prendere esempio dalle loro idee e dal loro coraggio.

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