Milioni di persone con disabilità visive o uditive sono escluse dalle sale cinematografiche per barriere architettoniche e mancanza di strumenti come sottotitoli e audiodescrizioni. Ma le leggi non impongono obblighi chiari, non esistono statistiche recenti né mappature. E l’assenza di strategie nazionali lascia spazio a iniziative isolate e insufficienti. L’opportunità dello European Accessibility Act: «Decenni di discriminazione, ma la cultura è un diritto non discutibile. Abbiamo bisogno delle istituzioni»
Candy Castellucci cammina tra le poltroncine verde acqua di una sala cinematografica. È una grande appassionata di cinema, si sente «famelica di racconti». «Trovo che il taglio che tu vuoi dare alla storia è la cosa più bella in assoluto, cioè la tua visione personale», dice, «anche se adesso, nelle mie condizioni, è veramente difficile guardare un film nella sua totalità».
Castellucci, soffrendo di retinite pigmentosa, ha perso la vista in pochissimo tempo. È una delle protagoniste di Guardami, documentario del 2024 diretto da Martina de Polo che esplora cos’è la bellezza per le persone affette da disabilità visiva.
«Vado spesso al cinema, anche se poi, per certi film, a volte chiedo (ai vicini di posto, sussurrando): “Che sta succedendo là?”. Quindi, sono un po' una rottura di scatole», dice la donna ridendo. «Ma mi piacerebbe che le produzioni pensassero anche alla disabilità visiva», aggiunge.
Se la frequentazione delle sale italiane cala vertiginosamente già da anni, con una decrescita di quasi 20 milioni di presenze rispetto ai primi anni 2000, andare al cinema non è mai stato possibile per una grande fetta di potenziali spettatori: le persone con disabilità fisica.
Nonostante le denunce da parte delle associazione di settore, l’accessibilità dei cinema italiani affronta ancora numerosi limiti, sia in termini architettonici sia di fruizione dei prodotti stessi, come l’assenza di audiodescrizione o sottotitolazione.
I numeri
Secondo i dati più recenti del ministero della Salute, in Italia circa 7 milioni di persone soffrono di problemi uditivi (il 12,1 per cento della popolazione totale). Il 18,6 per cento della popolazione soffre, invece, di limitazioni visive gravi o moderate. Ciò significa che potenzialmente 17 milioni di persone sono escluse dall’esperienza cinematografica.
Ma per Gabriele Uzzo, responsabile accessibilità di Sudtitles, agenzia specializzata nella realizzazione di sottotitolazione e audiodescrizioni per cinema e tv, non è neanche una questione di numeri. «Il punto è un altro, cioè che la cultura è un diritto non discutibile», dice Uzzo.
«Come se dicessimo: “Prima di mettere una rampa all’ingresso di un museo, calcoliamo quante persone in sedia a rotelle ci verrebbero”. No, non c'è mai stato un discorso del genere. I sottotitoli, come tutti gli strumenti di accessibilità, sono un'arma per esercitare un diritto, e la loro mancanza è una negazione di tale diritto», spiega Uzzo.
Anche il patrimonio museale italiano presenta barriere che impediscono il pieno accesso alle persone con disabilità, con solo la metà dei musei (il 53 per cento, secondo l’Istat) adeguatamente attrezzato per persone con disabilità motoria e addirittura il 12,6 per cento per quelle con disabilità sensoriale. Per quanto riguarda i cinema, però, non esiste nemmeno un’indagine statistica recente che indichi con precisione quanti cinema sono fisicamente accessibili alle persone con disabilità, e ne manca anche una mappatura nazionale.
«Eppure basterebbe pochissimo in alcuni casi. Per l’audiodescrizione, che è una narrazione vocale che descrive elementi visivi di un film non intuibili da dialoghi o colonna sonora della pellicola, un cinema potrebbe anche solo fornire un Qr code: le app gratuite disponibili sono tante. Alle persone servono un paio di cuffie», spiega Federico Spoletti, co-fondatore di Incinema, il primo festival del cinema inclusivo in Italia che promuove l’accessibilità culturale attraverso proiezioni con sottotitoli per sordi e ipoacusici e audiodescrizioni per ciechi e ipovedenti.
A dicembre gli Stati generali del cinema accessibile di Napoli, un’iniziativa promossa dall’associazione Allelammie con il supporto della regione Campania, hanno sottolineato l’importanza di normative e strategie più incisive per rendere accessibili sale, festival e contenuti audiovisivi. In occasione dell’evento la Film Commission Campania ha dichiarato che sosterrà l’introduzione di punteggi incentivanti nei bandi della regione per le produzioni che garantiscono l’audiodescrizione.
Ma mentre
iniziative circoscritte cercano di compensare in autonomia le mancanze di politiche organiche e finanziamenti specifici , il tema dell’accessibilità del cinema rimane ancora sottorappresentato nel panorama nazionale culturale, finanziario e normativo.Cosa dice la legge
In Italia non esistono leggi che obblighino le case di produzione e distribuzione a fornire sottotitoli o audiodescrizioni per tutti i film distribuiti. La legge n. 220 del 2016 sulla disciplina del cinema e dell'audiovisivo prevede incentivi per le produzioni che rendano i film accessibili alle persone con disabilità sensoriali. Questi bonus, però, si applicano solo alla fase di produzione e non obbligano i distributori a implementare tali strumenti.
«Spesso, poi, queste versioni vengono fatte male e a basso costo, solo per ricevere i fondi, ma nessuno lo sa perché nessuno le distribuisce. Magari a volte vengono inviate alla Cineteca nazionale, ma di fatto gli utenti non ne godono», spiega Spoletti.
Anche il nuovo tax credit per il cinema italiano prevede misure volte a promuovere l'accessibilità. Tra queste, i produttori che richiedono il credito d’imposta devono garantire che le opere cinematografiche e audiovisive siano accessibili e l’obbligo include la produzione, distribuzione e diffusione dei contenuti. Il problema è che anche in questo caso non esistono sanzioni né un sistema di monitoraggio chiaro per verificare il rispetto dell’obbligo, il che lascia spazio a un'applicazione discrezionale.
Secondo gli enti che si occupano di accessibilità culturale, il 2025 potrebbe segnare un punto di svolta con l’implementazione dell’European Accessibility Act, una direttiva dell'Unione europea che stabilisce requisiti minimi di accessibilità per numerosi prodotti e servizi, inclusi i contenuti digitali e audiovisivi. Gli Stati membri hanno tempo fino al 28 giugno 2025 per recepirla nelle loro leggi nazionali. «Il problema è che deve cambiare qualcosa anche nella nostra mentalità», dice Spoletti.
Secondo Spoletti, infatti, le piattaforme di streaming internazionale, oltre ad aver standardizzato gli strumenti di accessibilità nelle loro produzioni, hanno anche normalizzato l’uso di sottotitoli, a cui gli spettatori stanno diventando sempre più abituati. «Invece in Italia vige ancora l’egemonia del doppiaggio, che tra l’altro ha una differenza di costo esorbitante rispetto ai sottotitoli», aggiunge.
Secondo le stime di Jobatus e Benessere economico, sottotitolare un film di 90 minuti potrebbe costare tra i 540 e i 900 euro. In confronto, il doppiaggio di un film della stessa durata ha un costo che varia tra i 10mila e i 20mila euro, considerando le spese per doppiatori, studio di registrazione e sincronizzazione audio.
«Tra l’altro, rispetto a vent'anni fa, creare sottotitolature e audiodescrizione è ancora più fattibile con le tecnologie che abbiamo. Se quindi consideriamo questo, oltre all’esistenza di una normativa internazionale che dice che l’accessibilità culturale è un diritto, allora tutto questo sistema è ufficialmente discriminante», dice Spoletti.
Soluzioni e prospettive future
L’intervento istituzionale, però, oltre a prevedere una strategia nei cinematografi, dovrebbe estendersi anche a un’educazione all’accessibilità, collaborando con scuole e associazioni. Secondo le organizzazioni che si occupano di accessibilità culturale, bisognerebbe partire anche dalle stesse comunità di persone disabili che hanno smesso di guardare film al cinema.
«Queste persone adulte che oggi preferiscono non andare in sala erano bambini che magari per anni non hanno partecipato alla gita al cinema perché non era accessibile. Si tratta di decenni di discriminazione che ha delle ripercussioni generazionali», spiega Uzzo. «Dobbiamo spezzare la catena, ma per farlo abbiamo bisogno delle istituzioni».
Secondo Uzzo, i piccoli enti spesso non hanno la forza e le condizioni finanziarie per compensare una tale mancanza strutturale. «Ma quando le realtà singole entrano in contatto, fanno scintille. Se poi c'è un supporto finanziario statale questa scintilla prende finalmente fuoco», dice. «E allora saremo strumento di qualcosa di più grande, se è vero, come diciamo, che facciamo tutti parte di uno stato».
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