Nel 2014 un gruppo di ragazzi del quartiere Giambellino fondò un comitato per fornire ciò che mancava a una zona dimenticata, tra mense popolari e scuole calcio. Davano anche assistenza a chi occupava gli appartamenti vuoti dell’Aler, spesso anche ristrutturandoli. Un’iniziativa che si inscrive in una storia lunghissima di mutuo aiuto e lotta per la casa come diritto fondamentale. In primo grado le sentenze erano state durissime: ora gli avvocati puntano a opporsi all’accusa di associazione per delinquere
Il 2 ottobre comincia al Tribunale di Milano il secondo grado di un processo che in città è soprannominato “processo Robin Hood”: nove imputati, quaranta capi di imputazione fra occupazione, danneggiamento e il più grave, associazione per delinquere. In primo grado (novembre 2022) le sentenze erano state durissime, andavano da un minimo di un anno e sette mesi a un massimo di cinque anni e cinque mesi.
Cominciò tutto nel 2014. Un gruppo di ragazzi allora ventenni occupò un bar abbandonato all’angolo di via Odazio, nella periferia sud ovest di Milano. È il quartiere Giambellino cantato da Giorgio Gaber, una zona di case popolari, resistenza partigiana, migrazioni dal sud Italia e dal mondo, operai, cemento, degrado e solidarietà.
Occupazioni, sgomberi e solidarietà
Il gruppo di ventenni si dette il nome di Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio e il bar occupato prese il nome di Base: vi si organizzava tutto quello che mancava nel quartiere dimenticato da dio e dalle amministrazioni comunali. C’erano la mensa popolare, i pranzi solidali della domenica, la scuola calcio, il doposcuola per i bambini quasi tutti provenienti da famiglie in cui l’italiano si parlava a stento. C’era l’ambulatorio popolare con medici volontari una volta alla settimana. E uno sportello legale per aiutare persone straniere sprovviste di mediatori culturali a sbrogliarsela con la burocrazia italiana.
La burocrazia aveva spesso a che fare con la richiesta di assegnazione di alloggi popolari, che non arrivavano mai. Così il comitato aiutava chi una casa non l'aveva e occupava gli appartamenti vuoti di Aler (Azienda lombarda per l'edilizia residenziale) a sistemare gli alloggi. Si trattava di aprire le porte, ristrutturarli, ripararli, viverci finché non arrivava il proprio turno per un’assegnazione, se arrivava.
In quel 2014, a un anno dall’Expo, il prefetto di Milano era Francesco Paolo Tronca, lo stesso che fece annullare all’allora sindaco Giuliano Pisapia le trascrizioni di tredici matrimoni fra coppie omosessuali contratti all’estero. Tronca aveva deciso di rispondere alla crescente emergenza case annunciando un’ondata di 200 sgomberi.
La risposta della città era stata repentina: la gente si era stretta in cerchi di solidarietà, in tutti i quartieri periferici erano nati movimenti spontanei di mutuo aiuto fra gli abitanti. Il futuro Comitato sarebbe nato da quel momento di crisi e fermento. Alcuni membri abitavano nel quartiere e frequentavano il comitato Drago (Dare risposte al giambellino ora, strizzando l’occhio al Cerutti Gino di Gaber), nato l’anno prima per affrontare il problema delle oltre 500 case Aler lasciate vuote da anni – vuote e riscaldate tutto l’inverno.
Avevano conosciuto alcune famiglie, le loro difficoltà, e così era partita quella che alcuni giornali battezzarono Operazione Robin Hood.
Le storie
L’arresto avvenne alle 5 di mattina del 13 dicembre 2019. Elicotteri, camionette e schiere di poliziotti svegliarono l’intero quartiere, portarono via nove persone, altre furono sgomberate e identificate. Ad alcuni abitanti furono fatte firmare deposizioni in italiano di cui non capivano nulla. Una di loro al processo, osservando disorientata la propria dichiarazione, disse in spagnolo: «Giuro sui miei morti che non so perché sono qui», non aveva idea di cosa ci fosse scritto, di cosa avesse mai dichiarato.
La maggior parte delle persone ebbe paura davanti a quel dispiegamento di forze dell’ordine, in pochi hanno mantenuto contatti con i membri del comitato. Restano però alcune storie significative.
Lisandro è un uomo colombiano di quasi settant’anni che viveva di espedienti e aveva bisogno di una casa. Entusiasta del lavoro sul campo del comitato, era divenuto parte attiva dell’organizzazione di dopo scuola, mensa popolare, ambulatorio e pranzi sociali. Proprio per questa sua partecipazione attiva è finito fra gli imputati, la casa in cui abitava è stata sgomberata, è rimasto a lungo senza un alloggio, ospite da familiari e amici, spesso ha dormito per strada.
I ragazzi dell’ormai ex Comitato abitanti Giambellino e Lorenteggio si sono prodigati per aiutarlo a cercare appoggi più a lungo termine e lo hanno aiutato nell’iter per la richiesta di una casa popolare. Pur essendo riconosciuto ufficialmente come senza fissa dimora, con una pensione di 400 euro mensili e diverse malattie cardiache e mentali diagnosticate, ci è voluto moltissimo tempo. È entrato finalmente nell’alloggio che gli è stato assegnato solo pochi giorni fa, il 25 settembre. Dallo sgombero del 2019 sono passati sei anni.
Ma c’è anche la storia di una donna peruviana a cui era stata assegnata una casa in cui tutto era rotto, pure la porta d’entrata. Aler prometteva manutenzione senza mantenere quel proposito e soprattutto sanciva che il primo figlio della signora, ormai diciassettenne, era troppo grande e non aveva diritto a stare lì. Il Comitato l’aveva aiutata a sistemare l’appartamento perché lei e il figlio più piccolo potessero viverci: anche lei è finita fra gli imputati.
Case mai riassegnate
Per quanto riguarda le case sgomberate in quell’inverno del 2019, secondo una ricerca del programma di Radio 3 “Sottobosco Orizzontale. Milano attraverso le sue case” del 2023, la maggior parte sono rimaste chiuse da una lamiera e disabitate per tutto questo tempo. Nessuna riassegnazione.
Lo scorso giugno l’europarlamentare Ilaria Salis portava all’attenzione di politica e dibattito pubblico la mala gestione dell’edilizia pubblica. Oggi a Milano sono circa 60.000 gli alloggi popolari, ma circa un quinto del totale risulta sfitto, spesso è inagibile, la manutenzione manca del tutto.
Il comitato Robin Hood si inscrive in una storia lunghissima e non solo italiana di mutuo aiuto e di lotta per la casa rivendicata come diritto fondamentale e l’occupazione come forma di protesta oltre che pratica dettata dalla necessità e dal bisogno. Per questo la linea degli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini punta soprattutto a opporsi all’accusa di associazione per delinquere: «Si corroderebbe pericolosamente la libertà di dissenso, e in un contesto in cui le case ci sono ma non vengono assegnate, l’occupazione è anche una formula di dissenso».
Questa riflessione ha un peso particolare in un momento in cui il ddl Sicurezza, varato lo scorso settembre, mira a stringere proprio le maglie del dissenso, stigmatizzando comportamenti che in molti casi sono già illegali e già punibili dalla legge. Tredici nuove fattispecie di reato, quasi tutte legate alle pratiche di dissenso, per le quali le pene saranno d’ora in poi molto più aspre: dal blocco stradale alla resistenza a pubblico ufficiale, ma anche le occupazioni abitative per cui la pena massima prevista passerà dagli attuali 4 ad addirittura 7 anni di reclusione.
Anche il possesso e la diffusione di materiale che incita la protesta contro le grandi opere potrà essere punito con pene da 7 a 20 anni di reclusione: potrebbero bastare dei volantini contro il Ponte di Messina, un inceneritore o la Tav a passare anni della propria vita in carcere. Tanto che secondo l’Organizzazione per la sicurezza in Europa, «la maggior parte di queste disposizioni ha il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello stato di diritto».
Le accuse
Secondo la sentenza del 2022, il Comitato «agiva, in un'arrogata e rivendicata funzione surrogatoria di Aler, quale ente organizzato nell'assegnazione di alloggi e ciò realizzando attraverso occupazioni abusive e resistenze alle attività di sgombero» e decide pene fino ai cinque anni e cinque mesi nonostante rilevi anche «attività lecite alcune persino socialmente meritorie».
Se il ddl Sicurezza fosse retroattivo, ci sarebbero ben poche speranze per i nove imputati di vedere un abbassamento della pena in appello. Al momento, esclusi i singoli reati, è appunto l’associazione per delinquere a preoccupare di più. Come testimonia la sentenza, l’accusa aveva spinto sul reato associativo dipingendo il Comitato come un’organizzazione che si sostituiva allo stato. Parole che evocano un contesto mafioso, ma furono gli stessi carabinieri a chiarire che non si trattava di un racket e non c’era scopo di lucro. Gli unici soldi che giravano venivano dalle tasche degli stessi membri del comitato e servivano per la spesa dei pranzi sociali o per comprare i palloni ai bambini.
Del resto Milano si è sempre vantata del proprio Terzo settore fondato sulla solidarietà e l’aiuto reciproco, pronto ad agire lì dove lo stato manca. Nel 2020 furono le Brigate volontarie per l’emergenza a occuparsi di dare assistenza e fornire pacchi alimentari alle famiglie più svantaggiate durante la pandemia: agirono con l’aiuto di Emergency e il sostegno del comune, appoggiandosi poi a contesti radicati nei quartieri fra cui diversi centri sociali occupati come Lambretta e Macao e allo stesso Comitato di Giambellino.
In quel caso, l’organizzazione dal basso era parsa a tutti di fondamentale importanza, per tamponare disuguaglianze e difficoltà.
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