Il racconto dei superstiti, tornati su quella spiaggia calabrese per il secondo anniversario del naufragio in cui morirono almeno 94 migranti: «Nuotavo cercando di tenere mio fratello e di scaldarlo. Dopo un’ora non rispondeva più». «Quello che abbiamo subito è stato come un omicidio». Oggi vorrebbero riunirsi con i propri parenti, ma nonostante l’impegno preso dall’esecutivo ci è riuscito solo uno di loro
Quando due anni fa i sopravvissuti alla strage di Cutro sono stati trasferiti nella struttura di accoglienza di Isola di Capo Rizzuto, vicino a Crotone, Assad credeva di essere stato portato in una prigione. Lui e gli altri 80 superstiti dormivano per terra o su letti di fortuna in un’unica stanza.
«Eravamo rinchiusi là dentro, non potevamo uscire e nessuno ci spiegava cosa stava succedendo. Dopo diversi giorni ci hanno trasferiti e abbiamo potuto vedere le salme. Così ho ritrovato mio fratello», racconta il giovane profugo siriano, tornato in Italia per ricordare le vittime del naufragio nella celebrazione organizzata dalla Rete 26 febbraio.
Partito dalla Turchia insieme a quasi 200 altre persone sul barcone affondato a poche centinaia di metri dalla costa calabrese, Assad, 25 anni, ha lasciato la Siria quando era ancora minorenne, per sfuggire alla guerra. Della notte del naufragio ricorda l’acqua che entrava nell’imbarcazione, mentre con suo fratello e suo zio cercava di arrampicarsi su ciò che ne restava per rimanere a galla. Poi il salto nel mare, mentre la barca andava in pezzi sotto le onde.
«Nuotavo cercando di tenere su mio fratello e di scaldarlo. Dopo un’ora non rispondeva più ed è morto. Ho provato a tenerlo fuori dall’acqua fino all’arrivo dei soccorsi». Il fratello di Assad è una delle 94 vittime recuperate dalla Guardia costiera durante l’azione di soccorso iniziata alla prime luci dell’alba del 26 febbraio 2023.
«Come un omicidio»
Trentacinque morti tra quelli identificati non raggiungevano la maggiore età, molti erano bambini. Ahmed, 33enne palestinese, si ricorda di loro: «Cercavo di tenere a galla i bambini, di farli uscire dall’acqua mentre si aggrappavano a me». Si era imbarcato dalla Turchia dopo aver lasciato la Palestina per cercare lavoro in Europa.
Di quel naufragio porta ancora i segni addosso: «Non sento più da un orecchio a causa dell’acqua che ci è entrata, ma quello che abbiamo subito è stato come un omicidio: urlavamo chiedendo aiuto e nessuno è venuto a salvarci. Sono vivo solo perché sono riuscito a nuotare verso la riva».
Come Assad, anche Ahmed è tornato a Cutro per la commemorazione del secondo anniversario del naufragio, organizzata dalle associazioni che si sono mobilitate per chiedere giustizia per i sopravvissuti e i familiari delle vittime.
I superstiti che hanno deciso di partecipare alle celebrazioni quest’anno sono 20, tra palestinesi, siriani, afghani, pakistani e iraniani. La maggioranza di loro vive attualmente in Italia, ma gran parte dei sopravvissuti si è spostata altrove, soprattutto in Germania, Francia e nord Europa. A fare da interprete c’è Ramzi Labidi, mediatore culturale dell’associazione Sabir, tra le prime persone a entrare in contatto con coloro che, nei giorni successivi alla strage, erano stati portati all’interno del centro di accoglienza di Isola di Capo Rizzuto.
Le promesse tradite sui ricongiungimenti
È lì che Labidi ha conosciuto Assad, Ahmed e gli altri sopravvissuti a cui l’associazione ha fornito supporto e informazioni su ciò che stava accadendo: «Insieme agli altri attivisti siamo stati con loro per oltre un mese e abbiamo costruito un rapporto di fiducia. Ora continuiamo ad assisterli nelle procedure di ricongiungimento familiare».
Ma tra tutti i sopravvissuti che vorrebbero riunirsi con i propri parenti, finora soltanto un ragazzo iraniano che abita a Crotone ci è riuscito.
Ahmed, che ora vive in Belgio e sotto le bombe a Gaza ha perso decine di familiari, ha avviato la procedura per portare in Europa i propri figli, mentre Assad ci sta provando da tempo. Oggi vive in un centro di accoglienza in Germania, dove è stato accolto come rifugiato. Studia tedesco e lavora come parrucchiere: «Era ciò che desideravo, ma temo per la mia famiglia rimasta in Turchia. Il governo italiano aveva promesso di farla arrivare in Italia, ma sono passati due anni e non è mai successo».
Il 16 marzo 2023 alcune famiglie delle vittime residenti in Europa e alcuni sopravvissuti al naufragio, tra cui Assad, sono stati invitati a Palazzo Chigi per un incontro con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani. In quell’occasione l’Italia aveva assicurato il proprio impegno diplomatico per dare seguito alle richieste di accoglienza e di ricongiungimento familiare raccolte tra i partecipanti.
Ad Assad e agli altri era stato chiesto di fornire alla prefettura i nomi dei parenti con cui desideravano ricongiungersi, per avviare la procedura. Quegli elenchi sono stati consegnati, ma nessuno ha più ricevuto risposta.
Il corridoio umanitario che non c’è
Dopo quel giorno, Assad e altri 33 profughi che avevano chiesto di essere trasferiti nel territorio tedesco hanno raggiunto la loro destinazione a bordo di un volo di Stato. «Questa promessa è stata mantenuta, ma quella di trasferire in Italia i miei fratelli con i miei genitori no», racconta Assad. «Avevo parlato con la presidente Meloni e con il ministro Tajani che mi avevano promesso che li avrebbero aiutati, ma con me ho potuto portare solo la salma di mio fratello».
La legge italiana prevede che il ricongiungimento familiare possa avvenire solo se a richiederlo sono persone residenti in Italia. Tuttavia, a Palazzo Chigi i rappresentanti del governo si erano impegnati per esaudire le richieste avanzate dai sopravvissuti anche attraverso misure alternative in altri paesi europei.
«Era stato promesso un corridoio umanitario per far arrivare in Europa i parenti dei sopravvissuti dai campi profughi di Turchia e Siria, ma questo non si è mai verificato. Non serviva convocare parenti delle vittime e superstiti a Roma per una promessa che non è mai stata mantenuta», critica Manuelita Scigliano, referente della Rete 26 febbraio.
Mentre i sopravvissuti sono in attesa di poter incontrare di nuovo le famiglie, alcuni non hanno ancora ricevuto lo status di rifugiati e sono costretti a richiedere di anno in anno il permesso di soggiorno, in un processo di regolarizzazione che sembra non finire.
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