La Life Support è ancora ferma al porto di Siracusa a causa del maltempo che ne sta ritardando la partenza. Intanto sulla nave la vita prosegue: «L’annuncio del porto di destinazione è sempre un momento di gioia»
«Dovrebbero esserci i corridoi umanitari. Dovrebbero esserci le istituzioni. Invece ci siamo solo noi a riempire il vuoto. Non è questa la strada attraverso cui le persone dovrebbero raggiungere l’Europa». Così Jonathan Nanì La Terra, 39 anni, ragusano, dreadlocks biondi e occhi azzurri, conclude la sua lezione sui salvataggi in mare in condizioni critiche.
È il Sar team leader, cioè il capo delle operazione di ricerca e soccorso della “Life Support”, la nave di Emergency ormeggiata al porto di Siracusa, sulla costa sud-orientale della Sicilia, in attesa di partire per la sua 25° missione nel Mediterraneo centrale.
Ad ascoltarlo, nella livingroom, la sala comune in cui l’equipaggio condivide tempo, spazi e conoscenze, c’è tutto lo staff. Ventisette persone di ogni età e provenienza che, sedute sui divanetti, poltrone e sedie che riempiono la stanza, scelgono di dedicare gran parte della loro vita a togliere dal pericolo quelle degli altri. In balia del meteo, delle partenze dalle coste del Nord Africa, delle onde.
2.200 persone salvate
«Di notte con il mare mosso, come evitare che a un’imbarcazione malconcia, piena fina all’orlo di persone si rovesci per la foga mista all’euforia di chi si immagina finalmente al sicuro?», chiede Nanì La Terra. Per spiegarlo, ribadisce procedure e protocolli, analizza i video dei salvataggi in mare portati a termine dalle altre organizzazioni umanitarie, ricorda le esperienze vissute a bordo della Life Support fin dalla prima missione: «È stancante», chiarisce riferendosi al fatto che da quasi due anni trascorre più tempo in mare che a terra, «ma non ho intenzione di cambiare vita. Mi rende felice».
Dal dicembre del 2022 sono state oltre 2.200 le persone soccorse dalla nave di Emergency: 1.653 uomini,171 donne e 397 minori, provenienti da Bangladesh, Siria, Egitto, Pakistan, Costa d’Avorio, tra i paesi d’origine più frequenti. Ma sono anche tante altre le nazionalità di chi, salito a bordo, grazie all’impegno degli operatori umanitari, ha raggiunto un porto sicuro in Italia, in cui provare a ricostruirsi una vita dopo sofferenza, guerre o violenza. Almeno in teoria, almeno prima che il tanto discusso, quanto poco legittimo, protocollo Italia-Albania, tentasse di esternalizzare le frontiere dell’Europa, terra che si definisce dei diritti, fuori dall’Europa stessa.
I mediatori culturali
Chiara Picciocchi, 31 anni, e Yassin Ramadhan Afa, 34, d’origine eritrea, sono i mediatori culturali bordo della Life Support. Insieme parlano italiano, inglese, francese, arabo e tigrino. Sono il punto di riferimento per i migranti che vengono accolti a bordo della nave, in quanto gli unici in grado di comprenderne, senza troppi intoppi, la lingua. Ma sono anche il loro primo contatto con l’Italia al termine di lungo e estenuante viaggio, che inizia via terra e finisce nel mare, per chi, dalla Libia o dalla Tunisia percorre la rotta conosciuta come “del Mediterrano centrale”. Una delle più pericolose al mondo, perché quella in cui muoiono più persone con il sogno di raggiungere l’Europa: almeno 513 dall’inizio del 2024. E sono 731 i dispersi, secondo i dati appena aggiornati dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Toccherà o a Picciocchi o a Ramadhan Afa salire a bordo del rhib 1, il primo dei due gommoni a scafo rigido con cui la squadra di soccorritori di Emergency si avvicina alle imbarcazioni in difficoltà, per tranquillizzare i naufraghi.
«Spieghiamo loro che siamo una ong italiana e vogliamo aiutarli. E che non devono agitarsi per evitare che il mezzo su cui viaggiano si rovesci. Bastano poche e semplici parole per evitare tragedie», dicono i mediatori. Entrambi raccontano come sia la paura la prima emozione che leggono negli occhi dei naufraghi, un attimo prima di iniziare il salvataggio: «Dopo qualche ora sulla Life Support, invece, iniziano a sentirsi a loro agio, e al terrore subentra la speranza. Così diventano curiosi, ci riempiono di domande su dove andremo e quale sarà il loro futuro».
Arrivare in Italia
Ma i mediatori culturali, proprio come tutto lo staff di Emergency a bordo della nave impegnata nelle operazioni di ricerca e soccorso – il team medico, quello che coordina il soccorso, Zeno Morino del dipartimento di comunicazione, la squadra dedicata all’accoglienza dei migranti sulla Life Support – non può fare promesse, né prolungare il sostegno ai naufraghi oltre il termine del viaggio in mare, il loro compito termina con lo sbarco.
«L’annuncio del porto di destinazione è sempre un momento di gioia», spiega il comandante Domenico Pugliese, 53 anni, tre figli, una vita in mare. Trascorsa, prima, alla guida di navi commerciali, poi, dal dicembre 2022 a capo della Life Support: «Un’esperienza che m’ha cambiato – racconta – perché ho compreso il coraggio di chi è disposto a partire».
È lui a comunicare il luogo di sbarco ai naufraghi che attendono speranzosi buone notizie, nell’area shelter, il “rifugio” dedicato all’accoglienza delle persone in mare, in cui vivono in attesa di arrivare a destinazione: «È un evento piacevole anche se il porto assegnato è lontano, distante giorni di navigazione. Perché i nomi delle città italiane, come Livorno o Napoli, non hanno alcun significato per i naufraghi. Ma implicano la certezza di arrivare in Italia, un luogo sicuro».
Sia Pugliese, sia Nanì La Terra chiariscono che, sebbene abbiano chiesto spiegazioni alle autorità italiane sull’assegnazione del luogo di sbarco – i porti in cui la Life Support ha attraccato nelle 24 missioni sono quasi sempre diversi: da Siracusa, Augusta, Napoli, a Livorno o Ravenna, per dirne alcuni – non sono riusciti a capire le ragioni alla radice dell’abitudine del governo italiano, da quando il decreto firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a gennaio del 2023, è diventato legge, di assegnare alle ong porti lontani in cui far sbarcare i naufraghi a bordo. A motivare la scelta, ufficialmente, ci sono ragioni di sicurezza. Che, però, nella pratica sembrano un tentativo di rendere più complesso il lavoro delle organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo in base al presupposto secondo cui sarebbero loro a incentivare le partenze.
Ma a leggere i dati, come racconta Paolo Giordano, nel suo podcast per Emergency, In viaggio non pregare, si scopre un’altra storia, solo il 10 per cento dei migranti viene salvato dalle organizzazioni umanitarie, il resto o arriva da solo o grazie ai soccorsi prestati dalla Guardia costiera. In particolare proprio quella italiana, visto che Malta non risponde, mentre le autorità tunisine e la libiche sono note per i tentativi di rispedire indietro i naufraghi che incontrano in mare. Sarebbero oltre 19mila, secondo l’Oim, i migranti riportati in Libia dall’inizio dell’anno.
Il decreto Piantedosi
«L’unica autorità a rispondere alle nostre comunicazioni quando avvisiamo che ci prepariamo al soccorso è quella italiana. Da Malta, Libia o Tunisia non abbiamo mai ricevuto risposta», chiarisce il comandante della Life Support mentre spiega come funzionano le comunicazioni a bordo: «Di solito riceviamo le segnalazioni di una barca in difficoltà da enti affidabili, come Alarm Phone o Frontex. A quel punto comunichiamo con il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) e ci dirigiamo verso le coordinate indicate. Durante il salvataggio la comunicazione con l’Mrcc è costante. Al termine ci viene assegnato il porto di destinazione».
Pugliese sottolinea anche come, da quando il decreto Piantedosi è in vigore, per la nave di Emergency non sia sempre possibile effettuare altri soccorsi dopo il primo, perché il testo prevede che il porto di destinazione debba essere raggiunto senza indugio.
«A volte ci autorizzano per altri salvataggi, altre no. Anche in questo caso non conosciamo le ragioni alla base della scelta», conclude il Pugliese, mentre nella chat del team Emergency, arriva un aggiornamento dalla capomissione Anabel Montes: «A causa del maltempo la missione è posticipata», scrive.
Così la Life Support resterà ancora per qualche giorno attraccata al molo di Siracusa, aspettando di iniziare il suo viaggio nel Mediterraneo. Ma l’annuncio del ritardo, proprio come le polemiche politiche di palazzo, non turba l’animo dei soccorritori di Emergency, abituati a sopravvivere in mezzo al mare, dove la solidarietà è d’obbligo e l’attesa una costante.
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