La medaglia d’oro conquistata dalla nazionale femminile di volley alle Olimpiadi parigine ha scatenato nuovi entusiasmi per una disciplina che è una delle nostre migliori espressioni sportive. La coincidenza è favorevole per gustarsi su RaiPlay l’ottimo documentario Generazione di fenomeni, costruito intorno all’oro che per il cittì con gli uomini non arrivò, la finale persa con l’Olanda nel ‘96
La medaglia d’oro conquistata dalla nazionale femminile di volley nell’ultima giornata delle Olimpiadi parigine ha scatenato nuovi entusiasmi verso una disciplina che per tradizione e continuità è una delle nostre migliori espressioni sportive. Un trionfo reso ancora più speciale, oltre che per la qualità indiscussa delle giocatrici, anche per la presenza in panchina di Julio Velasco, fuoriclasse poliedrico di tattica e gestione, di ragione e sentimento.
La coincidenza è quindi favorevole per gustarsi su RaiPlay l’ottimo documentario Generazione di fenomeni, un lavoro prezioso che illumina, anche grazie a documenti inediti, la formidabile stagione che vide la pallavolo maschile italiana, guidata proprio dal ct argentino, dominare il mondo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Una nazionale capace di conquistare diciotto titoli tra il 1989 e il 1998 e che prima di allora non era mai riuscita a vincere nulla; un gruppo che nel 2001 è stato nominato come la «squadra di pallavolo più forte del ventesimo secolo».
Scritto da Filippo Nicosia e Paolo Borraccetti (che cura anche la regia) e prodotto dalla società Dinamo con Rai Documentari e il patrocinio del Coni e della Fipav, il documentario mette in scena la cavalcata trionfale di una squadra irripetibile che riuscì a trasformare la pallavolo da disciplina marginale ad autentico fenomeno popolare, un vero e proprio “sport per tutti”, per usare le parole di un libro dello storico Daniele Serapiglia, praticato a livello trasversale e arrivando a essere il secondo sport di squadra più diffuso in Italia.
La costruzione narrativa è quella che caratterizza la nuova stagione del racconto delle imprese sportive nell’era delle piattaforme; pur rinunciando alla dimensione della serialità (la soluzione in un’unica puntata favorisce comunque una fruizione rapida senza mai perdere i punti focali), Generazione di fenomeni introietta le regole del documentario contemporaneo, dove la triangolazione efficace tra testimonianze dirette, immagini e riprese d’archivio (comprese quelle private dei giocatori) e montaggio serrato contribuisce a costruire un’epica nell’epica, a moltiplicare l’effetto tensivo, ad alimentare una drammaturgia con una scansione in capitoli in cui scorrono le partite, le schiacciate e i punti chiave di una storia sportiva unica.
La finale del 1996
A fare da cornice ideale del racconto, però, non è una vittoria, ma una sconfitta, una di quelle più brucianti: quella della finale olimpica di Atlanta ’96 contro l’Olanda. Così si apre il documentario; e la delusione per quel pasticcio in ricezione e conseguente errore in attacco nel punto decisivo aleggia come un fantasma per l’intera ora e mezza di docu-film.
Il pregio di Generazione di fenomeni (l’epiteto fu coniato dal telecronista Rai Iacopo Volpi, per anni voce della nazionale, al termine del mondiale vinto nel 1994, prendendo a prestito una canzone della band bolognese degli Stadio) è quello di posare il microfono quasi esclusivamente a tutti i protagonisti di quell’epopea. E così ascoltiamo il racconto vivido di quelle imprese dai vari Zorzi (a lui si deve l’idea del documentario), Bernardi, Cantagalli, Gardini, l’attuale allenatore della nazionale De Giorgi, Giani fresca medaglia d’oro alla guida della Francia, e ancora Bracci, Toffoli, Papi, Gravina (Lucchetta non compare tra gli intervistati, ma è fortemente presente nelle immagini e nelle interviste dell’epoca).
Gli spaghetti
Un gruppo forgiato e plasmato intorno alla figura mitologica di Julio Velasco, il ct venuto dall’Argentina, fuggito dalla dittatura di Videla che gli aveva rapito il fratello, dispensatore di metodi, massime e filosofie di vita destinate a cambiare il rapporto degli italiani con la cultura della vittoria e della sconfitta, come ha saputo raccontare anche nel corso delle Olimpiadi appena concluse.
Emergono tratti più o meno nascosti di quei metodi, come la volontà di giocare amichevoli solo all’estero, oppure di vietare i cibi italiani durante le trasferte perché «noi rispettiamo tutto dell’avversario, compresa la sua cucina». Del resto, come racconta Zorzi, il ct Velasco strigliava i giocatori sostenendo che «se non riuscite a vincere perché vi mancano gli spaghetti, come farete a vincere quando gli avversari giocheranno bene a pallavolo?».
Adattamento, sacrificio, coesione. Tutto ha inizio nel 1989, un anno dopo la deludente spedizione ai Giochi olimpici di Seul: Velasco venne chiamato sulla panchina della nazionale dopo aver vinto quattro scudetti consecutivi con la Panini Modena imprimendo immediatamente una svolta al movimento. Europei in Svezia, poi Mondiali in Brasile con la schiacciata decisiva di Bernardi, finale persa agli Europei del 1991. Nel giro di pochi anni una nazionale senza una solida esperienza di primo piano alle spalle spezzava lo strapotere delle nazionali dell’est socialista e sbaragliava le sudamericane e centramericane.
Le star
Un crescendo che trasformò i pallavolisti nostrani in autentiche star, tra ospitate televisive da Baudo e Chiambretti, copertine dei rotocalchi, folle di fan ad attenderli negli aeroporti. Quella nazionale, sintetizza il giornalista emiliano Leo Turrini (di fatto unica concessione al mondo esterno tra gli intervistati), mise in atto «una rivoluzione epocale nel giro di poche settimane dimostrando che la pallavolo aveva tutto per essere lo sport delle famiglie».
E non solo delle famiglie, ma anche delle aziende; il docu-film aiuta, infatti, anche a disegnare la geografia culturale ed economica del volley nazionale di quegli anni, dall’asse Parma-Modena-Ravenna fino a Treviso e Milano, con l’ingresso di grandi gruppi economici come Fininvest, Benetton, Ferruzzi e la pallavolo che diventava «terreno di contesa tra i grandi ricchi italiani che si sfidano anche nei palazzetti».
Una celebrità improvvisa che segna anche i primi scricchiolii nella nazionale, di cui le cocenti sconfitte con l’Olanda nelle olimpiadi del ’92 (ai quarti) e del ’96 finiscono per rappresentare il “difetto” irrisolto di un’epopea senza eguali, la ferita di un eroe collettivo altrimenti invincibile. Come ha scritto Giuseppe Pastore nel libro La squadra che sogna, una sorta di romanzo di quella nazionale e di quella generazione, «la squadra più forte del volley ha conosciuto – e per due volte – l’asprissimo, insopportabile, irresistibile sapore della sconfitta. È per questo che siamo stati la squadra perfetta».
E l’oro di domenica scorsa è il risarcimento per Velasco, per Bernardi al suo fianco in panchina e per tutto quel popolo di appassionati che, come la generazione degli anni Novanta, non ha mai smesso di sognare.
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