Ilie Nastase è tra i campioni del Novecento che hanno rivoluzionato il tennis, ma nessuno come lui ha cambiato il modo di stare dentro un campo da tennis. A un certo punto degli anni Settanta decise che ne aveva abbastanza della realtà e diventò Nasty, l’equivalente, scrisse Gianni Clerici, del milanese carogna. Diventò semplicemente ciò che era nella sua natura essere, pensando di meritarselo dopo le vittorie Slam di Parigi e New York, una finale di coppa Davis e il primo posto, da primo tennista dell’era open, nella classifica Atp.

Era la primavera del 1973, Nastase aveva ventisette anni e seduto sul tetto del mondo prendeva di mira la moltitudine sottostante: giocatori, giudici di sedia, spettatori, giornalisti. Era un folle cecchino. Partito da Bucarest, capitale della Romania martirizzata da Ceausescu, grazie al passaporto di uno sport d’élite, restando però sempre al guinzaglio del regime, e accompagnato dai baffi impetuosi di Ion Tiriac, suo manager prima che compagno di doppio, il migrante Nastase scelse l’Italia per prendere la rincorsa verso la popolarità.

Fu amico di Pietrangeli e Panatta, del sole della Riviera Ligure e della Costa Azzurra, spessissimo sprofondato nelle calde tentazioni notturne. Qualcuno vide in lui la prima rockstar con la racchetta al posto di una chitarra, il rumeno pittoresco che guidò il tennis nel passaggio dal bianco e nero al colore. Tiriac, che era un Chirone dall’anima molto più pratica del suo eroe, intuì ben presto di avere per le mani una gallina dalle uova d’oro.

Gli eccessi 

Nastase regalò al tennis una lunga stagione di teatro dell’assurdo, prendendo a prestito, con ogni probabilità senza saperlo, le maschere del connazionale Eugene Ionesco, ma anche di Dario Fo e Carmelo Bene. Era abbastanza eccentrico da diventare un tiranno. Fece ridere e piangere.

Fece innamorare donne e uomini con il suo tennis riempito di furbizia e talento, una musica che suonava anche fuori dal campo e produceva visibilità e ricchi sponsor. Fu il primo tennista a superare il milione di dollari di premi l’anno, fece promesse da allora all’eternità non mantenute a centinaia di conquiste femminili e a quattro o cinque mogli. Si fece odiare da molti in tutti i continenti ma anche per questo diventò leggenda.

Non conosceva il senso del limite. Le sue zingarate non avevano confini. Pisciò (con Panatta) nel bagno del re di Spagna, chiamava Arthur Ashe “Negroni”, portò un gatto nero sul centrale del Roland Garros, si presentò in tribuna a Wimbledon con l’uniforme di maggiore generale dell’esercito rumeno, sfinì fino alle lacrime l’inglese Joanna Konta in un match di Fed Cup in cui lui era il capitano, poi licenziato in tronco, della squadra femminile rumena, fece terribili battute razziste sul figlio in arrivo di Serena Williams, un crollo di stile imperdonabile e per cui è stato bandito da tutte le tribune più importanti del tennis.

Quel bambino a Las Vegas

Non provava pietà neppure verso gli innocenti. A Las Vegas, durante un torneo di esibizione, una pattuglia di giocatori accettò di scambiare qualche palla con un bambino di nove anni spinto in scena dal padre che già lo immaginava e lo voleva a tutti i costi campione del mondo.

Alcuni si dimostrarono disponibili, altri molto meno. Borg si comportò come se ne fosse felice, Connors non poteva dire di no a quel padre che era anche il suo fedele incordatore. Nastase aveva altri posti dove avrebbe preferito stare, era visibilmente annoiato, racconterà quel bambino qualche anno più tardi. Era annoiato fino a che non scorse una ragazzina a bordo campo.

Ehi, disse Nastase rivolgendosi al suo giovanissimo avversario, è la tua ragazza Snoopy? Quella cosina graziosa laggiù è la tua fidanzata? Mi fermo e lo fisso, ricorda il bambino. Vorrei dare un cazzotto sul naso a questo stupido rumeno. Sugli spalti intanto si era radunata una folla di oltre duecento persone. Nastase giocava per loro mentre continuava a schernire il suo sparring partner, nel frattempo diventato furioso: «Quanto meno vorrei avere il coraggio di dirgli: mister Nastase, mi sta mettendo in imbarazzo.

Per favore la smetta». Dopo l’ennesimo sfottò il bambino buttò la racchetta con un gesto di stizza e abbandonò il campo. Fottiti Nastase. Quel bambino umiliato si prenderà più tardi le sue vendette. Era Andre Agassi.

Tudor Giurgiu, Cristian Pascariu e Tudor Popescu hanno raccolto con pazienza tutti i pezzi di Nastase e ne hanno tratto un film documentario, Nasty, more than just tennis, che presentato a Cannes arriva ora in Italia (il 18 novembre), distribuito nelle sale

da Fandango. Nel film Ilie non si sottrae a sé stesso, alle occasioni buttate al vento, tra le quali due volte Wimbledon sconfitto in finale da Stan Smith e Bjorn Borg. A 78 anni non si pente del suo strano modo di essere un artista, abbiamo l’arte per non morire di verità. Sarà mai stato felice? Nessuno è felice, dice, tranne gli imbecilli.

Ha vinto 64 titoli Atp, tra i quali quattro Masters di fine stagione, in singolo ha collezionato 908 vittorie e 334 sconfitte, con uno straordinario saldo positivo di oltre il 73 per cento. Era l’uomo più buono del mondo, sostiene Adriano Panatta.

Può darsi, ma afflitto da una malattia cronica, il suo tennis dilapidatorio: «Era più forte di me, qualcosa mi scattava dentro e dovevo parlare, scherzare, protestare. Facevo imbestialire gli avversari, ma la faccenda finiva per danneggiare soprattutto me stesso. Sono così, sono un balordo». Un balordo sì, ma come lui nessuno mai.

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