Ci sono cibi che hanno una doppia vita, che passano da essere un alimento proletario a un piatto molto raffinato. Matilde Serao racconta di averlo visto preparare in grossi pentoloni pieni di spezie, oggi invece i locali fanno a gara tra di loro per chi lo prepara in modo più chic
All’epoca in cui Boccaccio si perdeva dietro l’amore per Fiammetta tra le vie di Napoli, lo street food non esisteva ancora. Esisteva casomai il cibo da mangiare per la strada: sfacciatamente un’altra cosa. Il Boccaccio napoletano ha lasciato più di una testimonianza su come andavano le cose all’epoca in città, «festosa, lieta, pacifica, abbondevole e magnifica». Una delle prime attestazioni della lingua locale si deve a lui, si deve a una lettera scritta con lo pseudonimo di Jannetta di Parisse, «nello juorno de sant’Aniello». Informa Franceschino dei Bardi, un tipo di Gaeta, di essere diventato padre. La sua amante Machinta aveva partorito un bel maschietto. È questa l’occasione in cui sotto il nom de plume Boccaccio aggiunge che i parenti della donna avevano comprato un polpo e glielo avevano inviato, una vicina si era occupata di cuocerlo e di preparare il brodo.
È la prima testimonianza dell’esistenza di quello che oggi può atteggiarsi a star di una tendenza in fondo sempre esistita, nella Magna Grecia e nella Pompei pre-lava. La differenza è che in strada mangiavano i poveri, lo street food è marketing da turismo. Il brodo di polpo, ‘o broro ‘e purpo, ha avuto per sorte una doppia vita, una parabola da cibo proletario e adesso questa trasformazione stilosa in prodotto da catalogo per i visitatori. Nella prima, Matilde Serao lo vedeva preparare dentro certi pentoloni grossi così, pieni di acqua di mare, condito da qualche spezia piccante, meglio se con il peperoncino, e scriveva che per due soldi «questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta» (Il ventre di Napoli).
Oggi che la ricetta sta dovunque in rete, viviamo il paradossale destino di cercare suggerimenti sui tre posti (o i cinque, o i dieci) dove lo preparano meglio. Impressiona la metamorfosi di questo non-cibo, questo non-piatto, questa tazza di sapori che Giuseppe Marotta chiamava «il tè del mare» (L’oro di Napoli) e che invece nell’immaginario collettivo appartiene a un’area semantica di segno opposto, dove abita il discredito, quando non il disprezzo.
Un detto popolare vuole che ‘o purpo se coce dint’’a ll’acqua soja. Non significa solo che il mollusco si cucina dentro il proprio liquido, anzi, la frase si usa soprattutto come invito a saper aspettare, un inno alla pazienza, a sopportare. Se un nostro consiglio non viene accolto, non forzare la mano. Il cinese si siede sulla sponda del fiume e attende il cadavere. Il napoletano attende che il purpo si cuocia dentro l’acqua soja.
In una città nata da una sirena, con le creature d’acqua salata le cose vanno così. La seppia, per esempio, è associata al portatore di sventure. È essa stessa che si ammanta di nero, cosa vuole: chi accenna a una disgrazia allora fa la seccia. Anche l’ingenuità si incarna in un abitante del mare, si dice pescetiello di cannuccia il ragazzo che abbocca a un inganno o uno scherzo. Se c’è bafagna, se l’aria toglie il fiato, se vuoi fare un tuffo e non trovi freschezza, l’acque pare 'nu brodo 'e purpo; ed era sempre brodo di polpo per il sommo Gianni Brera il Napoli che nel 1988 si fece battere dal Milan nella partita decisiva per lo scudetto, nel senso che era cotto. Probabilmente nell’acqua sua.
Il brodo migliore
Non c’è stata generazione di adolescenti in città che in assenza di soldi una domenica non abbia scelto di far passare il tempo sul lungomare, pariando, potendosi permettere al massimo un paio di taralli a una bancarella, i lupini, i semi di melone, quando era già da signori la regina dello street food, la pizza a portafoglio.
Ogni virgilio degno di Virgilio, indica nella zona di Porta Capuana il posto migliore dove trovare oggi il brodo di polpo. È il luogo dove il leggendario Papuccio ‘o marenaro iniziò a venderne in tazze bollenti, prima di aprire il suo ristorante (‘A figlia d’’o marenaro). A meno di dieci minuti di cammino c’è il teatro San Ferdinando, il regno di Eduardo De Filippo, che mise i polipi al centro del dramma familiare scoppiato dentro casa Priore in Sabato domenica e lunedì. «Abbiamo comperato i polipi piccoli che piacciono tanto a donna Rosa» dice Elena, la vicina di casa dei protagonisti, moglie del ragioniere Luigi Ianniello.
I polipi che si fanno affogati con ulive e capperi. Anzi, aggiunge Luigi, «quelli da fare un solo boccone». Solo che Peppino Priore è mal disposto. Risponde che lui, la puzza dei polipi non la sopporta. «E la chiamate puzza?» lo riprende Luigi. Non ha ancora capito che l’indisposizione è nei suoi confronti, sospettato d’avere una tresca con l’inconsapevole Rosa.
Ma qui il purpo è già stato promosso, ammesso a una tavola borghese. In Festa di Piedigrotta di Raffaele Viviani, invece, i purpetielli veraci sono ancora comprati da ‘o maruzzaro, ambulante notturno. Quando in scena i personaggi affonderanno la forchetta nella pentola, dentro troveranno una scarpa, sei anni prima di vedere una scena simile in Chaplin. I polipi tentano di scavalcare gli orli delle tinozze in Pensieri della notte di Domenico Rea, oppure in Diario napoletano stanno nel palmo «come la testa della Medusa nella mano di Perseo».
Erri de Luca ha scritto in Pagine europee che «il Mediterraneo ha la forma di un polipo accovacciato in tana. Il polipo ha tre cuori, il Mediterraneo forse ne ha di più. Uno di questi è Napoli», mentre ne La doppia vita dei numeri si racconta di un pescatore di Ischia che insegnò a un ragazzino come si catturano col barattolo vuoto. Dopo: è venuto lo street food.
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