Alessandro Impagnatiello è stato condannato in primo grado all’ergastolo, a tre mesi di isolamento diurno e a un risarcimento per omicidio volontario pluriaggravato, interruzione di gravidanza non consensuale e occultamento di cadavere. La sentenza, pronunciata nella Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, è arrivata al termine di un processo iniziato a gennaio 2024 e durato tredici udienze.

In aula era presente la famiglia della vittima, che dopo la lettura del verdetto ha partecipato al flash mob contro la violenza di genere organizzato dal Comitato pari opportunità dell’ordine degli avvocati di Milano. Durante la manifestazione Chiara Tramontano, sorella della vittima, ha detto che «i due elementi che potrebbero veramente fare la differenza sono l’educazione sociale», che inizia in famiglia, e il supporto per le donne maltrattate.

I fatti risalgono al 27 maggio 2023, quando Impagnatiello ha ucciso con 37 coltellate la fidanzata Giulia Tramontano, incinta di sette mesi. Prima di ucciderla, l’aveva avvelenata per settimane con il bromadiolone, un veleno per topi. A maggio dell’anno scorso poi Tramontano aveva scoperto che Impagnatiello aveva una relazione con una collega. Il 27 maggio le due donne si sono incontrate, erano le ultime ore di vita di Giulia: quando è rientrata a casa Alessandro l’ha ammazzata, e poi ha nascosto il corpo.

Negli scorsi mesi la Corte di Assise di Milano ha disposto la perizia psichiatrica su Impagnatiello: era perfettamente in grado di intendere e di volere. Nessun disturbo paranoide né ossessivo-compulsivo, nessuna patologia che potesse alterargli la visione della realtà. Secondo la sentenza, aveva premeditato il femminicidio della compagna e del loro figlio.

La premeditazione è emersa lo stesso giorno anche nella requisitoria di un altro femminicidio, quello di Giulia Cecchettin, uccisa con almeno 75 coltellate l’11 novembre 2023. Il 25 novembre Filippo Turetta ha assistito in aula alla requisitoria del pm di Venezia Andrea Petroni. «È un caso di scuola», ha detto il pm, «mi sembra difficile trovare una premeditazione più premeditata di questa iniziata quattro giorni prima di un rapporto costante con la parte offesa».

Turetta dal 7 all’11 novembre si è assicurato di avere tutto il necessario per uccidere l’ex fidanzata e riuscire a scappare: ha comprato nastro adesivo, coltelli, mappe, provviste, ha prelevato soldi allo sportello del bancomat, ha studiato come nascondere la sua posizione durante la fuga e come far sparire le tracce informatiche. Per quel femminicidio che un anno fa ha scosso tutta l’Italia il pm in aula ha chiesto l’ergastolo, sottolineando che, data la giovane età di Turetta, è possibile che in futuro ci sia un’attenuazione della pena. La sentenza dovrebbe arrivare il 3 dicembre.

Gli uomini “normali”

«Non dobbiamo avere paura di sapere cosa gli uomini sono in grado di fare. Non c’è stato alcun blackout, alcun raptus. Anche gli uomini “normali” possono commettere delitti così efferati. Questo processo è stata l’occasione per affacciarci sul burrone che ci ha mostrato la banalità del male». Queste erano state le parole della pm Alessia Menegazzo durante la requisitoria del processo per l’omicidio di Giulia Tramontano qualche settimana fa.

Alessandro Impagnatiello è un ragazzo di 31 anni, italiano, con un lavoro. Non un mostro, non un pazzo, una persona “normale”. Così come Filippo Turetta, italiano, studente universitario, con alle spalle una famiglia come tante altre. Apparentemente nessun elemento di potenziale allarme, eppure entrambi sono stati capaci di organizzare e poi commettere un femminicidio.

È questo uno degli elementi di novità di questi casi: contribuiscono a smontare l’idea che il femminicida sia una persona malata e problematica. L’aveva evidenziato fin dall’inizio Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in un post pubblicato sul suo profilo Instagram: «L’assassino di mia sorella viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro».

In queste ultime settimane a smontare la retorica del “bravo ragazzo” ha contribuito anche il caso di Mazan, durante il quale presso il tribunale di Avignone sono stati interrogati 51 uomini per aver stuprato la settantunenne francese Gisèle Pelicot. Erano persone insospettabili, uomini qualunque che si possono incontrare al lavoro o al supermercato.

In molti casi mariti, padri, fidanzati. Gli stupri erano orchestrati dal marito di Gisèle Pelicot, Dominique Pelicot, che la drogava e reclutava uomini su Coco, una chat oggi chiusa. Per lui, sempre nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la procura di Avignone ha chiesto vent’anni di prigione, il massimo della pena in Francia.

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