Il ritorno al potere dei Talebani a Kabul segna per l’occidente l’epilogo di una fase del conflitto afghano durata vent’anni, con un costo, per le forze di sicurezza internazionali, di più di tremila uomini (di questi circa 2.300 statunitensi) e, nel nostro caso, cinquantatre soldati italiani. Il prezzo pagato dalla popolazione afghana, in termini di vite umane, è altissimo, più di 45mila le vittime, a cui si aggiungono gli oltre 100mila uomini delle forze di sicurezza afghane.

Per il popolo e le generazioni afghane la guerra è iniziata ancora prima, il 24 dicembre del 1979, quando i reparti dell’Armata rossa oltrepassarono il confine settentrionale dell’Afghanistan. Da allora il paese ha conosciuto più di 40 anni di varie forme di conflittualità e, in queste ore, le lancette della storia sono tornate indietro al 1996, anno in cui i Talebani presero il potere e istituirono l’Emirato islamico dell’Afghanistan. L’aforisma rivolto alle forze occidentali e attribuito a un combattente talebano fatto prigioniero un decennio fa, «voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo», sembra risuonare in queste ore in modo sempre più profetico e sinistro.

Strategie contraddittorie

Se l’intervento statunitense del 2001, nell’ambito dell’operazione Enduring Freedom, aveva dato in appena due mesi risultati eccellenti attraverso l’impiego combinato di forze speciali, armi di precisione e sostegno alle forze locali, il crollo delle autorità afghane di questi giorni ha certificato tutti i limiti e le contraddizioni sugli obiettivi del conflitto, già emersi dagli Afghanistan Papers pubblicati nel 2019 dal Washington Post.

Le testimonianze evidenziavano la non fattibilità della ricostruzione dell’Afghanistan, del programma di addestramento delle forze di sicurezza, così come delle politiche per contrastare il commercio dell’oppio. Sostanzialmente, secondo la tesi degli Afghanistan Papers, a fronte di motivazioni chiare che potessero giustificare l’intervento e l’invasione dell’Afghanistan per sconfiggere al Qaida, le politiche successive sono state caratterizzate da strategie contraddittorie e obiettivi irraggiungibili. L’ex ambasciatore americano in Afghanistan, Ryan Crocker, evidenziava che non si potessero finanziare le istituzioni afghane con più denaro di quanto ne potessero assorbire, senza generare processi di corruzione e frodi illimitate. Poco più di un mese fa il giornalista d’inchiesta americano Michael Tracey ha raccolto la testimonianza di un veterano delle forze statunitensi che aveva supervisionato il programma di addestramento delle forze di sicurezza afghane. Denunciando lo spreco di risorse dei contribuenti americani per lo sforzo ventennale sostenuto, la fonte di Tracey ha denunciato la sensazione che la presenza in Afghanistan servisse a giustificare le ingenti commesse per gli appaltatori e i fornitori.

Santuario del terrore

L’Afghanistan rischia così di tornare a essere quello stato fallito e quel santuario del terrore capace di produrre gli attacchi dell’11 settembre, se non addirittura l’incubatore di una moltitudine di sigle, tra cui lo Stato islamico del Khorasan e la rete Haqqani, potenzialmente pronte a compiere, anche grazie all’impiego di nuove tecnologie, molteplici attacchi. In queste ore si discute sulle reali possibilità di successo di quella che è stata a lungo definita una “guerra senza fine” o della “guerra che non poteva essere vinta”.

L’Afghanistan, ma prima ancora l’Iraq, impongono una riflessione sulla capacità di supportare dei processi di stabilizzazione e ricostruzione in aree di crisi dove spesso le istituzioni informali, i signori della guerra e gli attori esterni rappresentano il potere reale con il quale dover trattare. Il rischio che le immagini dell’evacuazione del personale americano da Kabul possano produrre un effetto domino e dar forza a gruppi e milizie armate in altre aree di crisi è reale, così come la pericolosa e fuorviante narrazione e percezione che i processi di state building siano destinati a fallire. Ciò avrebbe conseguenze devastanti in medio oriente, in Ucraina, in Africa e in particolar modo nel Sahel.

Gli altri attori

Appare, inoltre, evidente come a distanza di vent’anni lo stesso contesto internazionale sia profondamente cambiato e che altri attori, su tutti la Repubblica popolare cinese, la Russia, l’Iran e il Pakistan andranno a esercitare il loro ruolo nell’area, in assenza della superpotenza americana. L’epoca della guerra al terrore cede il passo, in Iraq come in Afghanistan, a un confronto sempre più evidente in tutti i settori tra Stati Uniti e Cina che le polveri dell’Afghanistan hanno a lungo coperto. L’Afghanistan impone riflessioni, non più rinviabili, anche e soprattutto tra i paesi europei che devono e non possono più ignorare l’arco di instabilità che investe direttamente le loro frontiere, da quella orientale a quella del Mediterraneo.

 

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