Anfield è un inferno, per questo vogliono andarci sempre tutti. Da Bologna un tour nella bolgia se lo sono regalati in tremila, molti hanno prenotato il volo per Liverpool settimane fa e da giorni recitano preghiere affinché questa partita di Champions League li mandi in estasi, loro e tutta la squadra. «Sarà una battaglia», ha detto Vincenzo Italiano senza troppa fantasia.

D’altra parte è difficile immaginare che cosa sia davvero Anfield, il rosso del suo fuoco, le grida, le sciarpe, la gente affacciata sul campo. You’ll Never Walk Alone. Canteranno per novanta minuti. Il Bologna per non essere da meno è partito con Gianni Morandi e Cesare Cremonini. Chi torna da Anfield, dicono, torna diverso. Anfield ti cambia, ti segna. «È un fottuto campo», ha detto una volta Pep Guardiola. «Combatti tutta la vita per essere qui», hanno ripetuto spesso i calciatori.

L’Inter ci entrò per la prima volta una sera di maggio del ‘65. Un paio di giorni prima gli inglesi avevano vinto la FA Cup battendo il Leeds e per le strade di Liverpool si erano rovesciati in duecentomila. «Eroi d’una grande guerra non sarebbero stati accolti in modo più clamoroso. Li hanno portati in trionfo, li hanno osannati e strapazzati», scrisse l’inviato del Corriere della Sera.

L’Inter aspettava il giorno della partita a Southport, cittadina balneare silenziosa, calma, a quaranta chilometri da lì. Alla vigilia gli fecero vedere le luci, ma il campo non lo toccò nessuno: i dirigenti dei Reds non volevano. I nerazzurri di Herrera persero 3-1 (si sarebbero rifatti al ritorno). Il presidente Moratti, alla vigilia, era stato profetico: «Il pericolo per il match è il pubblico, lei immagina cosa pretenderà dai suoi campioni?».

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La storia, la legge

Lo avevano inaugurato nel 1884, l’Everton lo prese in affitto per 100 sterline. Dopo il primo titolo la richiesta di canone quadruplicò e i Toffees decisero di andare dall’altra parte di Stanley Park. Mr. John Houlding raggruppò alcuni dissidenti dell’Everton e fondò un nuovo club: il Liverpool. La magia di Anfield è cresciuta nel tempo. Non importa guardare, per sentire i brividi basta mettersi in ascolto.

Chi ci va per la prima volta subisce una specie di shock. Anche la Juventus giocò lì nel ’65 la Coppa delle Coppe. I Reds dovevano rimontare un gol di svantaggio. I giornali italiani parlarono dei «tipici ragazzi di Liverpool, coi capelli lunghissimi alla Beatles, giaccone di pelle e stivaletti da torero» che «si apprestavano a impugnare le raganelle e i campanacci con cui tra poche ore ci assorderanno».

Bill Shankly, il leggendario manager, avvertì che «difficilmente i miei ragazzi falliscono i grandi impegni sul proprio campo». Alcuni tifosi avevano preso a spranghe un club dello United pochi giorni prima. E Reaks, il presidente, fece un appello: poco casino, tifo moderato. Ma nemmeno Shankly fu d’accordo: «Sarebbe assurdo ridurre al silenzio lo stadio proprio per una partita nella quale la squadra deve essere incoraggiata il più possibile». Finì male anche per la Juve.

Quella sera del Genoa

In pochi sono sfuggiti alla legge di Anfield. Ci riuscì il Genoa, negli anni 90, alla sua prima volta. Dall’Italia si pubblicò un reportage sull’England grigia, fumosa, una Liverpool strozzata dai problemi. Roberto Perrone, ancora sul Corriere della Sera, scrisse che «il calcio è l’unica forma d’evasione dalla monotonia che si è impadronita del bacino della Mersey da quando è finita la ricca stagione dei transatlantici. Non ci sono più balli della vigilia nei saloni dell’hotel Britannia, nei docks ora ci sono musei e un centro commerciale».

La squadra di Bagnoli vinse, non capitava dal ’73 che un club straniero occupasse Anfield. Restò negli occhi l’effetto Anfield, che «lo si capisce dopo dieci minuti in questa sera fredda di Liverpool, sembra di giocare da un’ora, sembra che la partita stia per finire e invece è appena cominciata».

Le prime volte delle italiane sono sempre state come l’attesa fuori dal tempio. Una smania, una bramosia di capire cos’è il sacro nel football, la fede più profana che esista. Nel 2001 la Roma espugnò Anfield con un gol di Guigou. E ci riuscì anche la Fiorentina nel 2009 con un gol di Gilardino. Prandelli l’aveva preparata bene: «È una partita storica per noi e chi giocherà cercherà di fare qualcosa che resti nella storia della Viola». 

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Domani il Bologna

È sempre questione di storia quando si tratta di Anfield. E lì ci puoi camminare in mezzo, correre, esultare. Per questo il Bologna che lì giocherà questa sera vuole regalarsi un risultato: per poterlo raccontare. E poi anche tramandare. Magari cantare. In quello stadio che ha ammutolito tutti. «Non avevo mai visto niente del genere», ammise Johan Cruyff. E Mikel Arteta, tecnico basco dell’Arsenal, allenava i suoi alla paura di Anfield facendo suonare You'll Never Walk Alone sul campo nei giorni della vigilia.

Il Napoli ci andò per la prima volta nel 2010 («Non sentiamo la pressione» disse Mazzarri prima di fare i conti con la tripletta di Gerrard), due anni dopo l’Udinese di mister Guidolin e Di Natale vinse 2-3 in una notte epica. Totò confessò: «Per me è un'altra finale. È come l'Europeo».

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Anfield non è uno stadio, è una vertigine. Qui l’intensità è un fatto tremendo, che ti stordisce, che ti toglie le forze. Non c’è da stupirsi se in tanti ne sono stati cancellati. L’Atalanta di Gasperini, quattro anni fa, la valutò come «la partita più importante della nostra storia». Era il 25 novembre 2020, il giorno in cui il calcio aveva perso il genio di Maradona, e la Dea trovò consolazione nel talento di Ilicic.

E persino il Milan, quando ci giocò per la prima volta nel 2021 dopo 122 anni, avvertì il senso dell’epica: «Scriviamo qui la nostra storia», caricò Pioli. I rossoneri persero 3-2. È pur sempre un giro all’inferno. Perdere non è difficile. Ma diremo che ci siamo comunque divertiti.

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