I balneari protestano contro il “loro” governo, che non ha fermato le gare per le nuove concessioni. Per l’Unione europea e i tribunali le aste si devono fare, ma mancano regole certe e ogni comune si muove da sé. Il racconto di vent’anni di proroghe e il caos degli ultimi giorni, fino alla scelta di Meloni di rinviare tutto a settembre
Ombrelloni e sdraio chiusi e bagnini a mezzo servizio. Il 9 agosto gli stabilimenti balneari hanno protestato contro il governo per le sue «promesse non mantenute». Con la serrata, indetta da Sib-Fipe e Fiba-Confesercenti, l’apertura dei bagni è stata ritardata di due ore, dalle 7.30 alle 9.30. Erano previsti più giorni di protesta, ma i concessionari hanno annullato le due repliche annunciate per il 19 e 29 agosto.
Le associazioni del settore sono sul piede di guerra contro l’incertezza sul rinnovo delle concessioni. A infiammare il comparto è anche la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che un mese fa ha definito legittima la possibilità per lo stato di appropriarsi delle strutture, a concessione scaduta, senza dover indennizzare i gestori. Il governo sarebbe potuto intervenire il 7 agosto, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, ma ha scelto la via del silenzio.
«Traditi da Meloni»
I titolari protestano contro «l’irresponsabile fuga dalle proprie responsabilità della politica e segnatamente del governo», hanno detto Antonio Capacchione e Maurizio Rustignoli, i leader delle due organizzazioni promotrici, che dicono di voler «tutelare oltre 30mila imprese che danno lavoro a 300mila persone».
Con lo “sciopero degli ombrelloni” i balneari esprimono la loro delusione rispetto alle promesse infrante dal governo, con Lega e Fratelli d’Italia che sono sempre stati dalla loro parte. Ora li hanno scaricati e loro si sentono traditi. «Giorgia Meloni e Carlo Fidanza ci avevano assicurato che, una volta a palazzo Chigi, non ci sarebbero state le gare. Da allora assistiamo a una pantomima», ha lamentato Capacchione.
Si è insomma arrivati a un punto in cui molti gestori sostengono di essere penalizzati dalle continue proroghe e preferirebbero avere un quadro normativo certo per capire come muoversi. «Ormai lo hanno capito anche loro che va trovato un equilibrio tra gli interessi di pochi e quelli di milioni di italiani che vorrebbero scegliere se andare in uno spazio attrezzato a pagamento o in uno libero e gratuito», ha scritto Edoardo Zanchini su Domani.
Cosa sono le concessioni?
Ma per capire una questione così intricata va fatto qualche passo indietro. In Italia le spiagge fanno parte del demanio pubblico, cioè i beni di proprietà statale che non possono essere ceduti. Lo stato può comunque concedere ai privati il loro utilizzo tramite una concessione assegnata con un bando pubblico. Una volta scaduto il termine, si dovrebbe indire una nuova gara per assegnare la nuova concessione, ma negli anni non si contano le proroghe che si sono succedute.
In alcune regioni è poi stata introdotta una diversa figura di concessione: la spiaggia libera attrezzata, che si pone a metà strada tra la spiaggia libera e lo stabilimento. Questo tipo di realtà va in concessione a un ente pubblico o a un soggetto privato e l’ingresso è gratuito (si pagano solo i servizi di cui si usufruisce). Il tetto massimo delle tariffe è fissato dal comune secondo criteri che garantiscano «l’economicità della gestione e l’uso sociale della spiaggia».
Di proroga in proroga
La direttiva Bolkestein (2006) prevede che i paesi membri dell’Ue gestiscano l’assegnazione delle concessioni e la gestione di servizi pubblici ai privati tramite «gare pubbliche aperte a ogni operatore europeo», in modo da garantire la concorrenza e facilitare la circolazione di servizi all’interno dell’Unione. Il tutto in vista di una maggiore integrazione del mercato interno europeo.
Nel 2009, per non incorrere in possibili sanzioni, il quarto governo Berlusconi abrogò il rinnovo automatico delle concessioni, pur mantenendo invariate quelle esistenti fino al 2015. Nel 2012 il governo Monti decise una nuova proroga fino al 2020 e con la legge di Bilancio del 2018 (governo Conte I, sostenuto da M5s e Lega) si è arrivati a un’ulteriore proroga fino al 2033. Alla fine del 2020 la Commissione europea ha quindi aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia.
Ogni volta che si sono trovati davanti a una decisione da prendere, i governi hanno scelto di prorogare la scadenza delle concessioni, rinviando il problema ai loro successori. Lo hanno fatto per non scontentare un bacino di voti notevole, sia a livello nazionale che nelle pieghe della politica locale. Ma anche per l’oggettiva difficoltà di intervenire su una materia regolata da leggi vecchie e per la mancanza di coordinamento tra i livelli istituzionali.
Decidono i tribunali
Solo nel 2021 il Consiglio di stato ha rilevato la priorità dell’attuazione della direttiva Bolkestein, fissando dicembre 2023 come termine ultimo per impedire la proroga delle concessioni. Il governo Meloni ha però optato per rimandarle fino a dicembre 2024, provocando un nuovo intervento della giustizia amministrativa: secondo i giudici è «dovere di tutti gli organi dello stato disapplicare la proroga», che è in contrasto con la Bolkestein e con il Trattato di Lisbona.
Altre sentenze del Consiglio di stato hanno poi confermato che le concessioni sono scadute il 31 dicembre 2023, con qualche possibilità di prorogarle fino al 2024 grazie alla legge sulla Concorrenza del governo Draghi. Ma solo se i comuni hanno già avviato l’iter burocratico per le gare; si valuta caso per caso e comunque, dicono i giudici, proroghe generalizzate non sono legittime.
«Per questa stagione balneare è ammissibile la sola proroga “tecnica”, prevista dalla legge 118/2022, per il tempo necessario a concludere le gare. Per fruire di tale proroga le autorità devono avere già indetto la procedura selettiva, o avere deciso di indirla in tempi stretti», spiega a Domani Alessandro Del Dotto, avvocato amministrativista e già sindaco di Camaiore (in Versilia).
Un po’ di numeri
All’inizio della stagione estiva gli stabilimenti balneari si sono presentati più numerosi dell’anno scorso. Secondo i dati di Unioncamere, al termine del 2023 erano 7.244 le imprese registrate in questo settore, contro le 7.173 del 2021. La riviera romagnola si conferma al vertice dell’offerta per numero di realtà, con una saturazione delle possibilità di accoglienza. Ma a crescere sono tutte le coste italiane, con in testa Calabria e Campania.
Secondo le stime di Legambiente, nel 2021 (ultimo dato disponibile) le concessioni per stabilimenti balneari erano 12.166, mentre risultavano 1.838 concessioni per campeggi e circoli sportivi. Per l’associazione ambientalista, in totale circa il 42 per cento delle coste sabbiose sono occupate da concessioni e in regioni come Liguria ed Emilia-Romagna si sfiorano picchi record, con il 70 per cento di spiagge occupato da stabilimenti.
L’anno scorso il governo ha commissionato una mappatura delle coste per dimostrare che le spiagge non sarebbero una risorsa scarsa: si potrebbe garantire la concorrenza, rispettando la Bolkestein, occupando i litorali ancora liberi. Per sostenere questa tesi si è fatto sì che solo il 33 per cento delle coste figurasse come sottoposto a concessione. «Una mossa criticata dalla Commissione, che ha notato come nel calcolo fossero state conteggiate anche aree non balneabili o inaccessibili», ha notato Vitalba Azzollini su Domani.
Canoni troppo bassi
Ma di che cifre stiamo parlando? Secondo stime della Corte dei conti, le concessioni balneari rendono allo stato circa cento milioni di euro l’anno. Per fare un confronto, ha notato l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, il comune di Milano ricava 60 milioni solo dagli affitti della galleria Vittorio Emanuele II. Per i concessionari i canoni demaniali marittimi sono molto bassi e sono rimasti invariati dal 1989 al 2020.
Dal 2021 è stato introdotto un canone minimo annuo di 2.500 euro. Una cifra che si ripaga con l’affitto di due ombrelloni per tre mesi, a 15 euro al giorno, ha calcolato Milena Gabanelli sul Corriere. E che “scandalizza” persino Flavio Briatore, secondo cui lo stato dovrebbe aumentare gli affitti: il suo Twiga ha un giro d’affari di quasi dieci milioni l’anno, a fronte di un canone inferiore a 22mila euro. È quindi chiara la sproporzione tra i fatturati (15 miliardi l’anno, secondo dati Nomisma) e i canoni versati allo stato.
I criteri per le gare
Nel frattempo le regioni e i comuni hanno avviato i bandi di gara in tutta Italia. Il problema è che mancano dei criteri uniformi per farlo: alla legge sulla Concorrenza di Draghi sarebbero dovuti seguire i decreti attuativi per fissare delle regole nazionali, ma il governo Meloni non li ha approvati. In assenza di ciò, negli ultimi mesi gli enti locali stanno procedendo per contro proprio.
Il Consiglio di stato ha chiarito che i principi della legge 118, pur non attuati in specifici decreti, vanno considerati dai comuni nella scrittura dei bandi. Essendo gare libere deve essere garantito l’accesso ai nuovi operatori, «ma devono anche essere valorizzate l’esperienza tecnica e professionale già acquisite da chi attualmente gestisce i lidi», dice Del Dotto (tra l’altro consigliere speciale del presidente della Toscana Eugenio Giani).
E così nelle gare viene tutelato chi, nei cinque anni precedenti, ha usato la concessione come «prevalente fonte di reddito per sé e la sua famiglia». Inoltre, i lotti di spiaggia possono essere frazionati per fare in modo che venga favorito l’accesso delle microimprese e delle piccole imprese, oltre che degli enti del terzo settore (come associazioni religiose e di volontariato).
Come si muovono le regioni
In questi mesi le regioni si sono attivate e hanno proceduto in ordine sparso, alimentando altra incertezza. Il Veneto ha bandito le gare sfruttando una legge regionale del 2002 che consente procedure comparative per il rilascio di concessioni ventennali a fronte di un piano di investimenti. Il Friuli-Venezia Giulia ha approvato, a metà giugno, linee guida con i criteri di selezione: nella valutazione delle offerte la qualità dei servizi conta per l’80 per cento e solo per il 20 per cento pesa l’offerta economica.
In Emilia-Romagna le gare prevedono il «giusto riconoscimento» degli investimenti dell’impresa uscente e anche in Basilicata si è varata una delibera con le nuove regole. Al contrario, la regione Calabria ha scelto di non imporre il rispetto della Bolkestein perché, secondo il governatore Roberto Occhiuto, la risorsa non sarebbe scarsa: viene confermata la competenza dei comuni, che potranno valutare in autonomia se procedere con le gare.
A fine luglio il consiglio regionale della Toscana ha invece approvato una legge per disciplinare i bandi. Il testo dà indicazioni omogenee ai 34 comuni costieri, prevedendo un criterio di premialità per l’esperienza professionale e il riconoscimento di un equo indennizzo per i gestori uscenti. «Ora tocca alla giunta regionale disciplinare la definizione dell’indennizzo, che è a carico del concessionario entrante», dice ancora Del Dotto. Leggi simili potrebbero essere presto approvate in altre regioni, a partire dall’Abruzzo.
Comuni in ordine sparso
L’assenza di criteri nazionali certi ha permesso a ogni comune di disegnarsi le regole da solo, con disparità di trattamento tra una località e l’altra: alcuni enti hanno optato per i progetti di maggiore qualità, mentre altri hanno privilegiato le offerte più economiche. A ciò va aggiunto che molti comuni sono in difficoltà a gestire la mole burocratica. È ad esempio il caso di Cervia, sulla riviera romagnola, che ha 205 stabilimenti e un solo funzionario per i bandi.
In alcuni comuni le gare si sono già concluse. A Jesolo, sul litorale veneto, in otto tratti di spiaggia hanno vinto i vecchi gestori e in due tratti nuovi gestori. Non sono arrivate offerte da società straniere, a smentire l’idea che le multinazionali siano pronte a «colonizzare le spiagge», come sostiene chi si oppone alla Bolkestein. Tecnicamente il sindaco Christofer De Zotti (FdI) non ha bandito alcuna asta, limitandosi ad applicare la legge del 2002.
A Rimini la giunta ha approvato l’atto di indirizzo che regola le gare, aumentando la quota di spiagge libere e incentivando l’unione tra stabilimenti. Anche Ravenna e Genova hanno preso la strada delle gare, mentre sono state prorogate le concessioni a Viareggio e a Santa Margherita Ligure. Va ricordato che, dalla pubblicazione del bando, le procedure si tengono entro 60 giorni e che i comuni inadempienti rischiano una denuncia per omissione d’atti d’ufficio.
Verso un risarcimento?
Un tema che tiene banco, intanto, è quello degli indennizzi che i balneari riceverebbero per la perdita delle loro strutture: i vagoni di cabine ma anche bar e ristoranti da loro costruiti. In commissione Finanze alla Camera c’è una proposta di legge presentata da Riccardo Zucconi (deputato di FdI e imprenditore turistico) che mira ad abrogare un articolo del Codice di navigazione e a introdurre indennizzi a carico del gestore entrante.
Il risarcimento potrebbe valere tra i 400mila euro e i due milioni a stabilimento. Ma il testo, presentato un anno fa, non sta facendo passi avanti. «Anziché indire subito le gare – anche per bloccare la procedura d’infrazione europea – il governo inizia dalla fine, cioè dagli indennizzi ai concessionari, per offrire loro un salvagente», ha scritto ancora Azzollini. A ciò si somma il rischio di incostituzionalità, dato che la norma potrebbe risultare illegittima.
Al riguardo, va citata una sentenza del 2017 della Corte costituzionale su una legge della Toscana che prescriveva un indennizzo pari al 90 per cento del valore dell’impresa balneare: una misura che, secondo i giudici, ledeva la libera concorrenza, disincentivando la partecipazione di nuovi concessionari. Inoltre, va ricordato che la direttiva Bolkestein vieta l’attribuzione di «vantaggi ingiustificati» a favore del concessionario uscente, come sarebbe un indennizzo svincolato da criteri di proporzionalità.
La norma che non c’è
In questo quadro, il governo cerca di (non) muoversi per evitare lo scontro diretto con gli esercenti e con l’Unione europea. Nelle scorse settimane si era parlato di una proposta di legge che prevedrebbe l’ennesima proroga delle concessioni, anche fino a due anni. Ma per farlo dovrebbe esserci l’ok di Bruxelles: un’ipotesi molto remota, nota ancora Del Dotto, che però non esclude la possibilità di un mini-rinvio «a condizioni accettabili dal Consiglio di stato e dalla Commissione».
Ma quella che serve davvero – fughe in avanti a parte – è una norma che riordini in modo coerente la materia e dia qualche certezza a regioni e comuni. Una legge rinviata sine die e che non è approdata nemmeno nel Cdm del 7 agosto, l’ultima riunione del governo prima della pausa agostana. Ora resta solo da vedere se la maggioranza intende presentare il provvedimento nelle prime settimane di settembre.
«Parlo con alti esponenti del governo. Uno mi dice che la legge è alla firma della presidente, l’altro che bisogna attendere la nuova Commissione, che non si insedierà prima di novembre», ha detto a Repubblica Capacchione, presidente del Sindacato italiano balneari. All’orizzonte, intanto, si intravede il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia europea. Per Meloni sarà possibile non fare niente e aspettare ancora a lungo, tenendo la testa sotto la sabbia?
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