È almeno dall’inizio di questo millennio che la situazione carceraria italiana è indegna di un paese civile. L’attuale governo è riuscito nell’ardua impresa di peggiorarla. Ma quel che più risulta inaccettabile è la sordità etica e politica rispetto all’incessante grido di sconforto, di solitudine e di paura che proviene da quel mondo socialmente rimosso; rispetto a quei commoventi, disperati tentativi di restituire umanità e dignità alla propria vita, togliendosela.

Speranza negata

Non esistono, beninteso, interventi risolutivi, ma quando ci si rifiuta di incrementare la prevista riduzione di pena per i condannati meritevoli, impedendo anche a questo refolo di speranza di insinuarsi nell’aria stagnante e marcia dei penitenziari, si resta increduli.

Letteralmente sconcertati, poi, quando si conoscono le ragioni del rifiuto: lo stato in tal modo dimostrerebbe debolezza. A parte che se si aumentasse di un paio di settimane l’attuale riduzione semestrale di pena conseguente ai progressi di riabilitazione sociale dimostrati non si elargirebbe alcuna regalia, ma si adeguerebbe doverosamente lo sconto di pena al maggiore, illegale coefficiente di indebita afflittività che la sua esecuzione da tempo comporta.

L’immagine dello stato

Piuttosto, a chi afferma di aver tanto a cuore l’immagine dello stato verrebbe da chiedere cosa è stato fatto per cercare di rendere meno inguardabile l’immagine di uno stato condannato quasi cinquemila volte in un anno per trattamento inumano e degradante delle persone che tiene recluse; di uno stato in cui più di centomila condannati sono liberi (cosiddetti “liberi sospesi”) in attesa di sapere se debbono scontare la loro pena in carcere o con misure extracarcerarie; di uno stato nei cui penitenziari si suicidano dieci detenuti al mese e si registrano numerosissimi gesti di autolesionismo e tentativi di suicidio (per non parlare del contesto ostile e mortificante in cui debbono operare gli agenti di custodia); di uno stato che ha già subito due mortificanti condanne dalla Corte europea del diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante delle persone detenute (caso Sulejmanovic del 2003; caso Torreggiani del 2013) e che si appresta – con sconfortante cadenza – a subirne una terza.

Principio autoritario

La risposta si trova, più che in qualche dichiarazione di circostanza, in alcuni provvedimenti con cui si è ritenuto di affrontare la tragica situazione: un’ assunzione di mille agenti di custodia, l’introduzione del reato di rivolta carceraria, la proposta di eliminare il reato di tortura, la costruzione di nuovi penitenziari, l’“esportazione” di alcuni condannati nei loro paesi di origine.

Quello che si vuole, dunque, è riaffermare l’immagine di uno stato autoritario, in grado di imporre nello stabulario penitenziario ordine e obbedienza. Una concezione della pena non lontana da quella enunciata baldanzosamente dal direttore del carcere nel film Fuga da Alcatraz: «Noi non creiamo buoni cittadini. Però creiamo dei buoni detenuti. Alcatraz è stata fatta per tenere tutte le uova marce in un paniere solo; e io sono stato scelto appositamente per garantire che non fuoriesca la puzza, da questo paniere».

Contro la Costituzione

Se poi in tal modo ci si pone in aperto contrasto con la Costituzione, alla cui stregua «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 comma 3), vorrà dire che si dovrà ridisegnare, coerentemente, l’art. 27 della Costituzione, in modo da evitare che continui a essere «il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici a scapito del valore di difesa sociale e di prevenzione generale della pena» (onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove).

È questo l’aspetto democraticamente più insidioso di un tale orientamento politico, che viene disinvoltamente sintetizzato con stucchevole psittacismo nell’ambigua espressione “certezza della pena”.

Ottica ingannevole

Non sappiamo se per calcolo o per erronea convinzione si è riusciti a far passare l’idea che la chiusura ermetica dei condannati nel contenitore carcere sino all’ultimo giorno di pena da scontare sia una garanzia di sicurezza sociale.

Tutte le esperienze e gli studi al riguardo dimostrano, al contrario, che la prospettiva di un meritato, graduale ritorno in libertà della persona detenuta, unitamente a un sostegno e a un controllo nella delicata fase della “convalescenza sociale” subito dopo le dimissioni dal carcere, è la migliore garanzia contro la recidiva.

Un’ottica ingannevole quella che contrabbanda per sicurezza sociale il divieto di abbassare qualsiasi ponte levatoio tra carcere e società nel corso dell’espiazione della pena: prima o poi il detenuto dovrà tornare definitivamente in libertà e non dipenderà da quando, bensì da come vi farà ritorno la sua propensione a delinquere ancora. Ma, come insegnava Christa Wolf nella Medea, «non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci».

Abbiamo invano sperato che un piccolo varco in questa ottusità securitaria potessero aprirlo le scultoree parole espresse dal presidente Sergio Mattarella nel suo ultimo discorso di insediamento dinanzi al parlamento «dignità è un paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza». Un discorso tanto diligentemente applaudito, quanto scrupolosamente ignorato.

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