La legge sull’Autonomia differenziata è accerchiata. Tutte le armi costituzionali per annientarla sono attive. Il “campo largo” dell’opposizione ha raccolto oltre un milione e mezzo di firme per promuovere un referendum per la totale abrogazione della legge.

Si sono unite cinque regioni (Campania, Toscana, Sardegna, Emilia-Romagna e Puglia) che, oltre all’abolizione totale, ne hanno chiesto l’abrogazione parziale (la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni limitata solo ad alcune materie del 116.3 Cost.).

Le stesse 5 regioni hanno impugnato la legge sostenendone l’incostituzionalità, in tutto e su alcuni punti sostanziali (senza i quali la legge non avrebbe senso). Il governo è giustamente preoccupato, e all’interno della maggioranza i partiti si dividono.

Una legge qualificante l’indirizzo politico del governo di Giorgia Meloni – insieme al premierato e alla riforma della giustizia – si sta rilevando una bomba a orologeria. Forza Italia ne ha preso le distanze, la premier non ne parla più (il suo partito è sempre stato per la nazione “una e indivisibile”), sicché la Lega è rimasta sola a difenderla (insieme ai governatori di Veneto e Lombardia). L’iniziativa di Sabino Cassese, sollecitato dal ministro Calderoli (l’artefice della legge), di definire i Lep nella commissione che dovrebbe occuparsene pare il tentativo disperato di fermare una tempesta ormai inevitabile e travolgente.

Tutto è nelle mani della Corte costituzionale, cui spetterà l’ultima parola sui referendum e sui ricorsi. La data per decidere i quesiti referendari è stabilita per legge (gennaio del 2025), quella sui ricorsi è discrezionale. Il collegio presieduto da Augusto Barbera ha annunciato che risolverà i dubbi di costituzionalità prima dell’ammissibilità dei referendum. È una scelta corretta, quando su una stessa legge pendono contemporaneamente questioni di legittimità e referendum abrogativi. La prima decisione non solo precede logicamente la seconda, ma quella priorità serve anche per evitare che gli elettori votino su una legge sospetta di violare la Costituzione.

Così si fece in passato, quando sulle leggi che introducevano l’immunità delle alte cariche dello Stato e il legittimo impedimento la Corte decise prima i dubbi (annullandole in tutto e in parte) e poi l’ammissibilità (nel primo caso non si votò, nel secondo solo sulle parti superstiti). La notizia è che, stabilendo quest’ordine dei lavori, ora come allora, la decisione sui ricorsi pregiudicherà quella sui referendum. Se la legge sarà dichiarata incostituzionale (in tutto o in parte), le domande referendarie diventeranno automaticamente inutili (in tutto o in parte).

La decisione di anticipare ha un rilievo “politico”, che risolverà un’impasse. Il collegio che giudicherà sui quesiti a gennaio non sarà quello di oggi, perché il parlamento dovrà eleggere quattro giudici (quello che manca da quasi un anno, più i sostituti di Barbera, Modugno e Prosperetti che scadono a Natale). È molto probabile che l’accordo parlamentare assegni alla maggioranza tre giudici e il quarto alle opposizioni (ma a quale partito toccherà?). La composizione della Corte sarà diversa. Ma – questo il punto – ciò non inciderà sulle sorti della legge Calderoli, se nel frattempo la decisione sulla sua costituzionalità sarà stata già presa.

I dubbi sollevati sono seri e convincenti. La legge sull’Autonomia differenziata non è prevista dalla Costituzione: per dare nuovi poteri basta un’intesa (tra il governo e la regione richiedente) approvata con legge a maggioranza assoluta delle camere. Il testo disciplina un iter che vede protagonista il governo e marginalizza il parlamento. Le regioni potrebbero ottenere interi blocchi di materie: tutta la sanità, l’istruzione, la previdenza, l’ambiente.

Un’esagerazione, come se i diritti di tutti fossero frazionabili. Per finanziare queste materie, la legge ricorre a quote di imposte statali riferibili al territorio della regione richiedente: un criterio che premia quelle più ricche e penalizza le altre. Si parla di invarianza della spesa, mentre i trasferimenti costeranno e assai per le casse dello Stato.

È probabile che la Consulta annulli la legge, sterilizzando così i referendum. Anche se a cadere non fosse l’intera disciplina, ma solo una delle parti indicate nei ricorsi, quel che rimarrebbe sarebbe una scatola vuota. Non più quella “secessione dei ricchi” che reclama diritti e risorse solo per alcuni e non per tutti.

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