- Questa è l’età in cui la straordinaria vicinanza dovuta alla globalizzazione e alle sue interdipendenze o connettività può trasformarsi nel suo opposto. Più ci avviciniamo e più ci mettiamo paura l’un l’altro. Ciò accade perché l’aria del tempo è inquinata con troppa violenza diffusa e ostilità latenti.
- Ovviamente sono sempre gli “altri” a non avere “né limiti né tabù”. Così le frontiere – già scosse dalla crisi migratoria – diventano incandescenti, come quella tra europei e russi in Ucraina, ma anche molti confini africani e mediorientali. Forse i rischi maggiori sono nel mar della Cina davanti a Taiwan.
- Ciò che conta in questo scenario non sono le analisi geopolitiche degli specialisti ma il clima che si vuole creare: abituare all’ineluttabilità di una guerra e all’impossibilità della convivenza. Ciò inquina le coscienze e avanza come un virus.
Questa è l’età in cui la straordinaria vicinanza dovuta alla globalizzazione e alle sue interdipendenze o connettività può trasformarsi nel suo opposto. Più ci avviciniamo e più ci mettiamo paura l’un l’altro. Ciò accade perché l’aria del tempo è inquinata con troppa violenza diffusa e ostilità latenti.
Mark Leonard, direttore del European Council on Foreign Relations, la chiama “the age of unpeace”: intraducibile perché non vuol dire esattamente senza pace ma “che disfa la pace”, come una tela di Penelope che si scompone. Siamo come su un piano inclinato in cui molti leader, ministri o responsabili pensano che l’unico atteggiamento da avere sia quello bellicoso. Si sente parlare di brutalizzazione delle relazioni internazionali, corsa alla potenza e competizione di modelli contrapposti.
In cerca di un nemico
Ovviamente sono sempre gli “altri” a non avere “né limiti né tabù”. Così le frontiere – già scosse dalla crisi migratoria – diventano incandescenti, come quella tra europei e russi in Ucraina, ma anche molti confini africani e mediorientali. Forse i rischi maggiori sono nel mar della Cina davanti a Taiwan.
Ma chi può dirlo? I nostri analisti di cose internazionali aumentano la tensione con giochi di guerra mediatici, consigliando al nostro paese alleanze militari vecchie e nuove. Si sta forgiando per il grande pubblico l’immagine del nuovo nemico da cui proteggersi e, visto che siamo in tempi liquidi, c’è anche possibilità di scelta: Russia, Cina, Turchia o un qualunque paese arabo. L’importante è dare spessore al sentimento di “unpeace”: la pace si disfa preparandosi a qualcosa d’altro.
Per cosa vale morire
Alla guerra? Non la si evoca apertamente: potrebbe creare reazioni anche se il movimento per la pace è carsico da anni. Si utilizzano altre espressioni ambigue avvelenando l’aria. La domanda più frequente è: per che cosa vale la pena morire? Per Kiev, per Taipei, per Tripoli, per il Mediterraneo...?
Ma già porla fa deviare il pensiero: in pratica è come se si dicesse che almeno per qualcosa vale la pena morire. Una sola cosa è esclusa in partenza: che la pace globale possa tenere. Si tratta di una nebbia emozionale atta a confondere nello spirito dell’opinione ciò che è guerra con ciò che è pace.
Si aggiunge che la guerra è già iniziata: attacchi via internet, armi di migrazioni di massa, fake news, politiche commerciali e manipolazione delle elezioni. Kabul è stato un campanello di allarme e ora tutti pensano alla loro autonomia strategica, anche la pacifica Unione europea. Il resto è disfattismo o ingenuità.
Ciò che conta in questo scenario non sono le analisi geopolitiche degli specialisti ma il clima che si vuole creare: abituare all’ineluttabilità di una guerra e all’impossibilità della convivenza. Ciò inquina le coscienze e avanza come un virus: è la vera trappola di Tucidide che attanaglia la politica e azzera il pensiero. In realtà pace e guerra sono ben distinte e non esiste nessuna inevitabilità. La politica europea deve assumersi la responsabilità di un nuovo pensiero a tale riguardo.
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