Negli ultimi anni Donald Trump ha cambiato il dibattito politico e pubblico negli Stati Uniti, portando il partito democratico ad allinearsi sui dazi e anche sull’immigrazione, ritenuta un problema da gran parte della popolazione
Il tempo e probabilmente i tribunali diranno chi ha vinto le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Ma fra le cose che si possono affermare prima ancora che le schede siano conteggiate ce n’è una scandalosa ma inevitabile: Donald Trump ha già vinto. Non ha già vinto perché promette di rovesciare a suon di ricorsi legali e forzature istituzionali (e chissà cos’altro) l’eventuale risultato in favore di Kamala Harris, viziato da fantomatici brogli che il repubblicano agita da settimane come spettri davanti al suo elettorato.
Ha già vinto perché alcune delle sue proposte fondamentali, quelle che ha messo al centro del messaggio elettorale, sono state interiorizzate dall’establishment e ormai fanno parte dell’offerta politica anche del Partito democratico, al netto delle evidenti differenze di toni nel presentarle e modalità nel metterle in pratica. E infatti negli ultimi tempi Trump durante i suoi comizi ha intervallato gli insulti con una battuta ricorrente: deve mandare a Harris un cappello rosso “Make America Great Again”, tante sono le idee di destra che l’avversaria ormai sostiene apertamente.
Protezionismo, immigrazione e questioni economiche hanno dominato la campagna elettorale, mentre politica estera, aborto e diritti civili sono progressivamente scese nella lista delle priorità. Su quest’ultimo gruppo di questioni le differenze sono radicali e tali rimangono, eppure su dazi e politiche migratorie l’amministrazione Biden-Harris ha portato avanti una linea che si discosta da quella di Trump per intensità e modalità, ma non è fondata su principi diversi. L’amministrazione democratica ha rinnovato il trumpiano pacchetto di misure protezionistiche contro diversi paesi asiatici (ma anche contro l’Europa, ad esempio su acciaio e alluminio) e le ha perfino estese sulla Cina in alcuni settori strategici come quello dei semiconduttori. Anche se Harris non ha sbandierato percentuali sui dazi come ha fatto l’avversario (che giudica la parola “dazi” la terza più bella del vocabolario, superata solo da “religione” e “amore”), con ogni probabilità non cambierà il clima protezionistico vigente. Nella sua strategia per la reindustrializzazione si trovano idee sull’innalzamento delle barriere commerciali per proteggere anche i settori legati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Trump sostiene queste posizioni dalla fine degli anni Ottanta, ma solo negli ultimi anni i democratici hanno cambiato direzione dopo l’epoca delle aperture commerciali e dell’entusiastico abbraccio alla globalizzazione. Barack Obama, tanto per fare un esempio, ha guidato la fase di rilancio dell’economia del paese dopo la Grande recessione al grido autarchico di «Buy american».
Sull’immigrazione le convergenze sono ancora più evidenti. La percentuale di elettori democratici che vuole restrizioni sui flussi è costantemente aumentata negli ultimi dieci anni, e un sondaggio dice che addirittura il 42 per cento dei democratici è favorevole al rimpatrio di massa dei migranti senza documenti. L’amministrazione Biden si è mossa di conseguenza, e la campagna di Harris ha presentato proposte ancora più dure.
La vicepresidente è contraria alla depenalizzazione per chi attraversa illegalmente il confine, vuole inasprire le pene per i clandestini che reiterano reati e ha promesso di firmare la proposta di legge bipartisan che ha come primo firmatario un senatore democratico ed è sostenuta dalla Casa Bianca. Il disegno di legge estende l’opera di costruzione del muro, riduce la possibilità di chiedere asilo una volta attraversato il confine ed estende i poteri presidenziali di rimpatrio e deportazione.
A questo riallineamento politico in senso trumpiano corrisponde anche un cambiamento nelle opinioni di esperti che fino a ieri sostenevano che i dazi fossero una follia. Ha fatto discutere quello che ha scritto qualche mese fa il premio Nobel per l’economia Angus Deaton, il padre (insieme a Annie Case) degli studi sulle “morti per disperazione”: «Una volta ero parte del consenso quasi unanime fra gli economisti che l’immigrazione fosse una cosa buona per gli Stati Uniti, con grandi benefici per i migranti e quasi nessun costo per i lavoratori americani poco qualificati. Non la penso più così», ha scritto, notando che «la disuguaglianza era alta quando l’America era aperta, mentre era molto più bassa quando i confini erano chiusi». Insomma, Trump ha introdotto nel dibattito in modi ostentatamente xenofobi e inaccettabili idee protezioniste e anti immigrazione che sono state assorbite dalle agende dei partiti tradizionali, che ne hanno proposto versioni ripulite dalle tonalità più grevi. In questo senso, Trump ha vinto.
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